Il giovane laureato Sebastiao Salgado, nato ad Aimorés nel sud-est del Brasile, dopo il colpo di stato del 1964, appena ventenne, emigra con la moglie in un’Europa che non riesce a convincerlo assicurandogli un prospero futuro da economista affermato. Sebastiao si coccola la macchina fotografica che la moglie Lelia gli ha regalato, con amore, anni prima. Comincia a scattare foto e a raccontare storie di uomini.
Genesis, Workers, Migrations and Portraits, Others Americas. I titoli dei lavori di Salgado sono la didascalia perfetta dell’immagine che fotografa la vita del grande artista. Anni trascorsi a raccontare le tragedie, le gioie, le sofferenze ed i sollievi di quanti ogni giorno contribuiscono alla vita di questo pianeta.
Rwanda, Ethiopia, Francia, Polinesia. Dagli operai brasiliani, agli indigeni del Kenya, l’umanità è stata immortalata per una vita da un indefesso Salgado che è riuscito nell’ardua impresa di comprendere il valore che ogni scatto porta con sé: egli trasmette l’immagine del fotografo e del fotografato; inquadrato e inquadrante, uniti nel tentativo di comunicare la vicinanza di contesti apparentemente lontani, uniti alle innumerevoli sfaccettature di un mondo immenso. I suoi viaggi sanno parlare di mondi diversi che calpestano la stessa Terra. Sanno parlare di tribù asiatiche e di opulenza americana. Di genocidi africani e di vecchie tartarughe oceaniche. Wenders e Salgado decidono di dimostrare l’esistenza di uno splendido pianeta di cui l’essere umano fa parte e che, nel bene e nel male, deve accettare come comune a tutti.
Croce e delizia dell’ecosistema, l’uomo va cosìa comporre quell’universo cosìappassionante e cosìcatastrofico. La madre Terra fa da sfondo alle rappresentazioni del fotografo che sceglie come protagonisti delle sue foto i proprietari illegittimi del suolo che occupano. Il genere umano che razzia, abbatte, distrugge, autoproclamandosi proprietario esclusivo di un bene non suo; l’individuo che fugge l’idea di cogestione di un universo che egli tende invece a modificare a suo esclusivo piacimento.
La famiglia di Salgado, dopo aver girato il mondo, ha ripreso la volta del Brasile dove ha trovato la siccità a rosicchiare ogni cespuglio della fazenda di famiglia. Non farsi prendere da una facile paura è stato il motto della casa che ha consentito di rimboccarsi le maniche e provvedere a riconsegnare una piccola fetta di benessere alla Terra di cui siamo figli. In dieci anni Sebastiao Salgado e la sua famiglia hanno ripiantato oltre due milioni di alberi ed hanno cosìridato vita ad una foresta. Una foresta della cui proprietà Sebastiao e la moglie hanno deciso di disfarsi, concependo la volontà di restituire quel bene alla collettività . Da qualche tempo quella foresta è tornata ad essere un parco naturale, è tornata pubblica, è tornata comune, di tutti.
Un sistema che permette ai suoi sudditi di impossessarsi di una foresta e lascia loro la libertà di abbatterla deve saper ripartire dalle storie come quella raccontata dal film.
Gli scenari incontrati dall’obiettivo di Salgado hanno spinto la coscienza civica a tornare all’interno della mente di questo grande artista. Quella di Wenders è la storia di una coscienza che ritrova la strada di casa.
Ma è pensabile che per prendere coscienza dell’appartenenza ad un mondo comune, che per trovare la consapevolezza di condividere con miliardi di simili ciò che ci circonda occorra girare per quarant’anni i cinque continenti? Non basterebbe, più semplicemente, convincere i cittadini puntando a un cambiamento di paradigma culturale e istituzionale?
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