Muovendo da un’attenta analisi delle radici romanistiche dei beni comuni, l’incontro di studio ha dato prova del carattere plurimillenario di una classe di beni oggi solo apparentemente ” rivoluzionaria ” . Merito del convegno è quello di aver dato gradualmente forma ad una categoria di risorse da sempre nota al diritto e, dunque, da sempre necessaria agli uomini.
Una consapevolezza antica
Attraverso la lettura di un passo tratto dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio (N. H., VII, 1-5), proposto da Iole Fargnoli e relativo alla condanna rivolta dallo scrittore romano contro la dissennata pratica di sventrare la terra per fini estrattivi, è stata innanzitutto tratteggiata l’emersione di un’embrionale sensibilità ambientale, che, sebbene nutrita in un’epoca fortemente animata dall’impotente brama di dominare la natura, significativamente denota l’antica consapevolezza dell’uomo sulla necessità di porre un limite alle attività compiute a danno del creato. Sfatato poi, attraverso il contributo presentato da Vitulia Ivone, il mito della collocazione cronologica della questione comunitaria tra le righe del saggio “The Tragedy of the Commons” – pubblicato nel 1968 dal biologo statunitense Garrett Hardin -, nel corso dei lavori si è dimostrato come il discorso sui beni comuni non sia affatto riconducibile ad una recente invenzione delle piazze e, ancor meno, ad astratte speculazioni della dottrina, rispondendo invece, molto più radicalmente, ad un’inveterata consapevolezza degli uomini sulla necessità di garantire la massima cura e il più ampio accesso ad una serie di risorse naturali di vitale importanza.
Vecchie difficoltà e nuove certezze
A fronte tuttavia di una sensibilità innata, altrettanto risalente è apparsa una serie di difficoltà classificatorie – ricondotte in particolare da Laura Solidoro e da Piera Capone alla controversa distinzione tra res publicae e res communes; ma anche alla qualificazione di quest’ultime come res universitatis o piuttosto come res nullius – amplificate in epoca medievale e giunte, irrisolte, sino a noi. Difficoltà sistematiche, queste, tutte immancabilmente tradotte in un materiale vuoto di tutela dei beni comuni, fisicamente aggrediti, ieri come oggi, proprio in quanto attaccati e disconosciuti come chiara categoria del diritto. Tratto il dovuto insegnamento dalla storia, la soluzione emersa nel vivo del dibattito si è sostanziata nell’invito ad abbandonare la logica deleteria dell’inquadramento forzoso, mirando innanzitutto a stabilire un chiaro modello di gestione, nella certezza che bene comune non sia ciò che, più o meno arbitrariamente, è astrattamente qualificato come tale, ma ciò che, in concreto, nella percezione condivisa e nella quotidianità dei fatti, è percepito ed amministrato ” in modo ” condiviso.
Impressioni e auspici
Non a caso, nell’ambito della sessione dedicata alle problematiche odierne, sempre pacifica è apparsa la necessità di adottare un approccio funzionale che, prescindendo dal modello proprietario (cosìcome da qualsiasi altra contingenza giuridica), qualifichi un bene come comune, accordandone la relativa tutela, in quanto, appunto, intrinsecamente funzionale alla soddisfazione dei più basilari bisogni, materiali e spirituali, della collettività . Ed è del resto questo, come ricordato nel corso della lectio magistralis tenuta da Andrea Di Porto, il criterio suggerito dalla stessa Cassazione a partire dalla nota sentenza n. 3665/2011. Nell’incalzare del dibattito, dunque, l’impressione che più vividamente è stata trasmessa, e che qui è al contempo auspicio, è che in questo mondo, ancora troppo popolato da remore legislative e perplessità della dottrina, al diritto toccheranno un giorno le sorti della nottola di Minerva, pronta a levarsi in volo su una realtà già compiuta.
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