Un'intervista a Michele d’Alena, Responsabile dell'Ufficio Immaginazione Civica della Fondazione per l'Innovazione Urbana di Bologna, sulla sorprendente risposta all’emergenza-alluvione in Romagna
Il peggio sembra essere passato a Bologna e in gran parte dell’Emilia-Romagna ma permangono zone dove la situazione è molto critica. Posso chiederti un pensiero, a caldo, in termini di amministrazione condivisa?

Credo che quanto sta accadendo sia per molti tratti diverso rispetto a recenti altre emergenze, pensiamo a un confronto con il contesto abruzzese e al disastro de L’Aquila. La mia è una considerazione personale, ho raccolto qualche racconto diretto di amici e amministratori ma è certo che il tratto di territorio colpito, da Bologna alla costa Romagnola, è ricco di densità, c’è molto capitale sociale abituato alla cooperazione e un’alta propensione al digitale. L’insieme di questi ingredienti ha creato un terreno di collaborazione diffusa in cui i diversi soggetti hanno cercato terreno comune. Senza la combinazione di questi elementi, senza la loro relazione sussidiaria, posso affermare che i morti potevano essere molti di più. Non a caso quando l’alluvione è arrivata, le scuole erano già chiuse e il tessuto era in parte allarmato e pronto all’emergenza.
Dentro questo scenario, i molti amministratori giovani e la nascita di molti gruppi digitali autogestiti con chat telegram e whatsapp, emergono come fari smistando informazioni con una velocità mai sperimentata prima d’ora. In questa emergenza ho notato diversi livelli di approcci che possiamo far rientrare in quella che chiamiamo amministrazione condivisa.
Il primo è durante l’emergenza, quando è fondamentale avvertire la popolazione: “sta arrivando l’acqua alta, salite ai primi piani o evacuate!”. Non c’è il tempo di organizzare una comunicazione strutturata, e si vede subito la differenza tra chi ha già vissuto situazioni simili, tra chi si è dotato di strumenti, e chi no. Di fronte a quanto stava accadendo, mappe alla mano, serviva agire nelle zone soggette a frane e allagamenti: casa per casa, la comunicazione serviva veloce e capillare. Una sindaca mi ha detto: “Noi abbiamo tutte le mappe, sappiamo dove sono le case da evacuare ma non abbiamo i contatti delle persone che ci vivono dentro! Non esiste un incrocio di questo tipo di banche dati”. Serve velocità, non c’è tempo: così diventa fondamentale trovare strumenti adeguati e massima collaborazione. I comuni più evoluti hanno avviato una comunicazione via chat a cui gli abitanti si sono iscritti volontariamente. Altri avevano dei sistemi strutturati di messaggistica. Un sindaco mi ha raccontato che per tutta la notte più critica e ad ogni ora, ha aggiornato personalmente i propri profili social media e quelli del comune oltre a diverse chat su whatsapp per dire, passo passo, quanto stava accadendo. Era importante far sentire una voce umana, perché “la voce dell’amministrazione diventa fondamentale”.

“L’emergere di canali informativi così facili da organizzare, ci pone di fronte a qualcosa di inedito”

Il secondo livello dell’approccio sussidiario emerge con chiarezza immediatamente dopo l’emergenza, quando servono volontari non necessariamente formati ed esperti, evidentemente in questo caso abbiamo davanti i tanti ragazzi e ragazze attivati per spalare fango. Ovviamente non si tratta di mandare persone in zone dove la protezione civile identifica rischi, per esempio dove c’è rischio frane. In questa fase si può giocare una partita molto dinamica, in cui i comuni dotati di personale più esperto nel digitale hanno fatto un lavoro pazzesco: evidentemente le città con più personale, per esempio a Ravenna, Cesena, Faenza o Bologna erano più propense e più facilitate, ma se pensiamo a tutti quei comuni più piccoli è chiaro che si è sentita la mancanza di un piano diffuso e strutturato. I comuni piccoli sono chiaramente meno esperti e si sono trovati in prima linea inventandosi approcci e strumenti, a volte con improvvisazione. L’idea che ho visto diffondersi tra le amministrazioni era di porsi come piattaforma: da una parte i bisogni di gran parte della popolazione alluvionata, dall’altra una marea crescente di cittadini pronti a dare una mano. In mezzo i comuni che, impegnati a gestire una emergenza, aprivano un altro fronte organizzativo, quello della gestione dei volontari. Così in molti hanno creato moduli google in cui si chiedeva la disponibilità a dare una mano per poi incrociare domanda di bisogno e offerta di volontari. Immaginando concretamente un piccolo comune, questa fase diventa davvero difficile, faticosa, dispendiosa.
Il terzo livello è “il basso”. In tanti si sono attivati in modo autonomo, alcune realtà strutturate già abituate all’attivismo, quelle più consolidate, hanno creato gruppi di volontari. A Bologna sono partiti gruppi di ultras di calcio e basket, o si è creata una “piattaforma di intervento sociale con brigate di solidarietà attiva” per esempio, evidenziando un protagonismo di nuove forme aggregative e di mobilitazione. Interessante il caso di Ravenna in cui l’Auser ha provveduto a coprire con un’assicurazione quadro tutti i volontari. Particolare attenzione meritano le decine di chat autogestite su telegram e whatsapp che spesso diffondevano informazioni istituzionali, ma sono capitati anche casi di corti circuiti informativi, in cui non era chiara la fonte e la veridicità delle informazioni. Per chi si occupa di emergenze questo punto è noto da tempo ma di fronte all’emergere di canali informativi così facili da organizzare, siamo di fronte a qualcosa di inedito. Navigando tra queste chat, cercando di monitorarne usi e approcci, cittadina per cittadina, si incontra un vero humus di attivismo, spesso con una retorica – dichiaratamente o meno – auto-organizzativa, di chi cerca di dare una mano autonomamente. Come in queste slide aperte, e consultabili/integrabili da chiunque, “del popolo e per il popolo” con liste di cose da fare, kit per attivarsi, indicazioni concrete. Lo spirito è evidentemente collaborativo, ma in questo terzo livello è evidente che all’aumentare della complessità, aumenta il rischio di non coordinamento.

Cosa ti ha sorpreso nell’organizzazione delle chiamate e delle risposte, tradizionali e digitali?

Senza dubbio l’applicazione web di matrice privata “Volontari SOS”: oltre alle amministrazioni e alla mobilitazione dal basso di volontari, in Romagna sono entrati in campo anche soggetti privati. Immagino che ci siano molti casi di aziende che hanno messo a disposizione pompe, trattori e altri strumenti ma è una applicazione web che sarebbe da diffondere e riusare anche per altre emergenze: prima dell’alluvione non esisteva e ad oggi conta circa 41.000 persone iscritte con 28 amministrazioni nei diversi territori. L’uso è geniale, semplice, veloce: si tratta di una piattaforma che incrocia domanda e offerta avviando una vera mobilitazione spontanea e diffusa. I rapporti sono totalmente informali: ci si iscrive in modo intuitivo, ci si assume ogni responsabilità in caso di infortuni, si sceglie il comune e si accede ad un “cruscotto” dove si possono scegliere orari, attività, indirizzo e aggiungere note.

Chi ha inventato “Volontari SOS”?

L’idea è di Fabio Zaffagnini, che è stato fulmineo nel riuso della app Rockin 1000 da lui inventata per organizzare concerti, solitamente per incrociare la disponibilità di musicisti. Ha preso il codice esistente e l’ha ripensato per l’emergenza: invece di gestire musicisti da far convergere nei luoghi dove ci sono concerti, l’app è stata ripensata come un gestionale per incrociare volontari e amministrazioni locali per far fronte all’alluvione. Così l’amministrazione evidenzia i bisogni e i cittadini, con pochi semplici click, diventano volontari. I rapporti sono evidentemente mutualistici e unendo forze dal basso con amministrazioni di diverse dimensioni è una sorta di “airbnb delle emergenze” in cui sono i volontari a muoversi, a cercare cosa fare e dove attivarsi.

Sembra proprio il principio di sussidiarietà orizzontale quando parla di cittadini singoli e associati: in questa storia possiamo ritrovare anche l’autonoma iniziativa come molla delle azioni di interesse generale?

Tutto nasce da una telefonata al Comune di Cesena, come mi ha raccontato lo stesso Fabio: nel mezzo dell’emergenza ha chiesto cosa stava accadendo, come poteva essere utile. In quel momento l’Amministrazione stava creando un modulo Google da diffondere per gestire la richiesta di volontari e immaginando come essere d’aiuto, ha capito che questa strada suonava troppo dispendiosa. Per un imprenditore digitale come lui, per la sua capacità di organizzare mobilitazioni di Rockin 1000, si poteva fare meglio. Figlio della capacità imprenditoriale cooperativa romagnola, Fabio capisce il punto e trova una soluzione altrove non esistente. Fino ad oggi: stiamo parlando di un’app che gestisce 28 comuni con zero investimento pubblico.

A questo punto, sempre dal punto di vista della sussidiarietà orizzontale, bisognerebbe chiedersi cosa fanno a loro volta i soggetti pubblici per favorire l’autonoma iniziativa. Inoltre sono sicura che se fossimo in Francia subito ci si interrogherebbe sulla natura della piattaforma digitale: mentre fornisco i miei dati per rispondere all’emergenza li sto regalando a un player globale?

Sì, sono aspetti su cui in futuro dovremo interrogarci tutti, anche perché ormai la domanda non è se ci toccherà, ma quando ci toccherà. E quando ci toccherà dovremo avere gli strumenti già pronti. E’ chiaro che il sistema di gestione delle emergenze non tiene conto della crescente digitalizzazione e delle capacità di attivazione capillare. Però non possiamo permettere che i sindaci siano lasciati soli. E neppure che ogni comune abbia un sistema artigianale in cui i cittadini sono informati da chat in cui si sono iscritti volontariamente: e non è accettabile che i volontari possano trasformarsi da risorsa a problema.

Le alluvioni hanno colpito e affondato città e territori, da Bologna alla Romagna, che dall’osservatorio di Labsus sono tra i più collaborativi nelle alleanze tra responsabili pubblici e cittadinanza attiva: queste alleanze sono in qualche modo tornate utili nelle recenti settimane di crisi?

Sì, ma in modo indiretto: non credo si siano usati i database delle realtà civiche che hanno patti di collaborazione con le amministrazioni, non credo ci sia stato tempo per interventi in modo strutturato. Senz’altro è una questione di capitale sociale, spirito cooperativo e digitalizzazione: esiste una specie di proporzione tra questi elementi e la capacità di risposta all’emergenza. Anche Actionaid con “SOS terremoto” creò una piattaforma per i territori colpiti dal terremoto in centro Italia, ma questi territori hanno caratteristiche diverse, sono densi di capitale sociale, con molte piccole e medie imprese e associazionismo.

Vuoi condividere con noi alcune immagini di luoghi che ti hanno colpito?

Le immagini di “Romagna mia” in piazza hanno fatto diventare simpatica questa emergenza, ma come tutte le emergenze è stata totalizzante, sia per chi ha perso cari e beni, sia per chi ha partecipato direttamente agli aiuti. Ma serve andare oltre, sentire la voce di chi è in prima linea, per questo dico che è una questione di relazioni tra pubblica amministrazione e abitanti e cittadini.

C’è qualche frase che hai sentito e che ti ha fatto riflettere?

Quello che mi sta facendo riflettere è la capacità di gestione che avverrà nelle prossime ore, stiamo vivendo un momento di cambiamento di stato. Dalla prima fase emergenziale, ora c’è bisogno di coordinamento ed è un attimo che si passi da energia civica pronta a dare una mano a disillusione e rabbia civica, soprattutto nei territori più colpiti. SI rischia di passare dai badili ai forconi, diceva un post su facebook diventato virale. E la politica può essere collante o anche giocare una partita che cerca consenso tra i più colpiti, mettendo a valore la rabbia che è comprensibile tra chi ha perso tutto.

Nel tuo articolo su Vita descrivi i giovani come concreti, veloci e “poco interessati ai riti collettivi in cui ci si confronta”. Uno potrebbe dire che è un comportamento vicino ai loro coetanei che piantano le tende davanti alle università per aver diritto a una casa. Ma c’è secondo me una differenza tra azioni di cura e di advocacy. Secondo te?

Il punto che vorrei anche qui sottolineare è che mancano palestre per rendere collettive le istanze. Era evidentemente più facile per coloro che hanno vissuto alcuni riti tipici del Novecento, in cui era facile avere accesso a luoghi politicizzati, dove capire e imparare come si faceva attivismo e dove organizzare mobilitazioni era accessibile. I giovanissimi di oggi fanno fatica ad immaginare tutto questo patrimonio, sfuggono alla sfida della continuità nel tempo e nello spazio, adottano mobilitazioni spontanee e flessibili tipiche del digitale, tendenzialmente vedo che hanno difficoltà a sedimentare e lavorare in modo stabile e continuo. La liquidità dei gesti e la digitalizzazione nei metodi difficilmente creano le premesse per una concentrazione di corpi. Recentemente ho saputo che Arci sta saldando alleanze con alcuni gruppi di attivisti di Fridays for Future: credo che questa sia la strada perché il risultato sarà ovviamente un ibrido, diverso tanto dal circolo Arci che dalle manifestazioni di protesta per la giustizia climatica.

Che differenze hai notato tra persone e gruppi che si organizzano con i comuni e quelli che lo fanno da soli? E avrebbe secondo te senso mettere a sistema le cose? 

Quella che abbiamo visto è stata una campagna crossmediale in cui ogni target ha sentito il proprio richiamo: chi risponde all’appello dei sindaci, i più garibaldini che partono senza aspettare di essere convocati né coordinati. Abbiamo capito che è fondamentale la messaggistica istantanea, con enti locali che cercano di comunicare con i cittadini nella fase acuta. Poi viene la capacità di gestione di aiuti e volontari, con i problemi delle coperture assicurative perché l’auto-organizzazione va anzitutto riconosciuta ma vanno supportati i governi locali. L’amministrazione condivisa in emergenza, insomma, è uno schema di gioco che dovremmo tenere buono.

Michele d’Alena, docente e consulente, da oltre 20 anni si occupa di innovazione collaborativa. Da attivista ha fondato la piattaforma TiCandido, nel 2021 ha scritto un libro “Immaginazione civica” raccontando la sua esperienza alla Fondazione Innovazione Urbana.

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