Il valore profondo delle organizzazioni non profit non sta nelle cose che fa, ma nelle speranze che accende, negli spazi di libertà che costruisce, nelle responsabilità che smuove: un valore decisamente politico

Chi scrive è fermamente convinta che il nostro Paese si troverebbe in una condizione di maggiore criticità sociale ed anche economica se non ci fosse quell’immenso patrimonio di energie e risorse rappresentato dalle migliaia di organizzazioni non profit e dai milioni di cittadini e cittadine che operano in esse. Un patrimonio che vale tanto quanto, se non di più, del patrimonio culturale e paesaggistico per cui il nostro Bel Paese è famoso nel mondo.
Questo “patrimonio” è oggi attraversato da profondi cambiamenti, sia sul piano normativo (Riforma del Terzo Settore) sia sulla necessità di riflettere, “ri-significare” (Venturi-Bertinoro 2023) il proprio ruolo all’interno della società.
Uno dei temi sui quali questo settore si sta oggi confrontando è emerso grazie alle più recenti indagini promosse dall’ISTAT, in particolare quella che riguarda la quantità di volontari presenti nelle organizzazioni non profit; il loro numero si è ridotto sensibilmente negli anni dal 2015 al 2021 e ciò ha destato preoccupazioni e avviato riflessioni.

Due fotografie del volontariato

In realtà nell’anno 2023 l’ISTAT, attraverso il periodico Censimento delle Istituzioni Non profit, ci consegna due fotografie del volontariato, non del tutto sovrapponibili.
Nell’indagine pubblicata a maggio 2023 e che prende in considerazione il periodo 2015-2021 si registra un calo dei volontari presenti nelle diverse organizzazioni del 15% circa (in termini assoluti circa 960.000 persone)[1]; nell’indagine pubblicata successivamente che prende a riferimento il decennio 2011-2021 si registra un calo “solo” del 2%.  In quest’ultima rilevazione si evince come da un lato il numero di istituzioni non profit è cresciuto del 20% così come sono aumentati anche i dipendenti (erano 680.811 nel 2011 sono 870.163 nel 2020), mentre quello dei volontari dentro alle organizzazioni è calato, nel decennio, appunto del 2% (da 4.758.622 nel 2011 a 4.661.270 nel 2021, passando dai 5.528.760 nel 2015).
La prima indagine ha generato allarme tra studiosi dei fenomeni che accadono e si svolgono all’interno sia delle organizzazioni non profit e di quelle ad oggi iscritte al RUNTS, sia tra quanti sono attenti ai fenomeni (sociali, economici, politici) che avvengono in generale nella società; molti infatti sono gli articoli e le riflessioni apparsi su quotidiani e su riviste “specializzate” anche online.
Se prendiamo a riferimento il decennio 2011-2021 il calo c’è stato ma, in valori assoluti, di 97.352 volontari; sarebbe da indagare meglio come e in quali organizzazioni i volontari sono cresciuti dal 2011 al 2015 e come e in quali organizzazioni sono calati dal 2015 al 2021; ma non abbiamo a disposizione questi dati. Comunque sia, il calo c’è stato.

Le cause del fenomeno

Le cause di questo impoverimento non sono facilissime da analizzare, se non limitarsi a dire che sono più di una: lo stravolgimento nelle relazioni avvenuto con gli anni della pandemia; l’impoverimento progressivo di intere fasce di popolazione che prima avevano più tempo e risorse tali da potersi impegnare nel volontariato; gli effetti dell’invecchiamento e della natalità che vedono assottigliarsi sempre di più le coorti di popolazione giovane ed aumentare quella della popolazione anziana e molto anziana; l’effetto dell’innalzamento dell’età pensionistica per cui, da qualche anno e sempre più in futuro, di pensionati/e con età inferiore ai 65 anni ce ne saranno sempre meno e, in particolare non avremo più, progressivamente, persone andate in pensione alla soglia dei 40 anni alcune delle quali hanno potuto dedicare per lunghi anni molto tempo ad un impegno volontario nelle organizzazioni, spesso anche con ruoli di leadership.
Inoltre va sottolineato come l’ISTAT individua e censisce i volontari all’interno delle organizzazioni non profit, ma fatica o non può censire quel volontariato individuale che, invece, proprio a partire dal 2020 ha visto una crescita fortissima (durante la pandemia per poi continuare negli anni successivi a causa delle tante disgrazie quali la guerra in Ucraina, le varie alluvioni causate dal cambiamento climatico in non poche regioni e zone del nostro Paese); migliaia di persone mobilitate a volte semplicemente attraverso messaggi sui social o sui cellulari, ma anche in risposta a richieste provenienti da organizzazioni ben strutturate che, di fronte a catastrofi di grandi proporzioni, hanno chiamato all’appello quelli che una volta si chiamavano persone “di buona volontà”.

La mobilitazione per eventi straordinari

Il tema che qui ci interessa analizzare quindi non è se ci sono meno persone disposte a dedicare del tempo per fare volontariato – perché gli esempi citati prima dimostrano che non è così – piuttosto perché le organizzazioni non profit non riescono ad attrarre questa forma di volontariato occasionale e “individual-collettivo”.
Da un lato non possiamo non registrare che il crescere negli ultimi decenni di profonde diseguaglianze (economiche, sociali, culturali, di salute, lavorative, abitative) che un tempo avrebbero prodotto forti conflitti sociali, molte proteste di piazza, oggi rimangono spesso confinate nella sfera del privato; fenomeno che il periodo di chiusura e isolamento forzato degli anni della pandemia, così come la crescita dell’uso dei social media, il pullulare di piattaforme digitali hanno contribuito ad aumentare ma che ha origini più lontane nella disaffezione verso la partecipazione civica e comunitaria, nella sfiducia strisciante verso le istituzioni, nella diffidenza verso ogni tipo di diversità. Si partecipa (e si protesta) sui social, nel chiuso dei propri uffici e abitazioni e questo sembra bastare ai più in tutte le fasce di età e strati sociali. Ci si mobilita per eventi straordinari, nei quali, a fronte di un impegno di tempo relativo, si ottiene in cambio un riconoscimento elevato e una discreta soddisfazione personale per aver fatto “senza chiedere nulla in cambio” una buona azione a favore di altri in quel momento più sfortunati.
Eppure anche negli ultimi anni ci sono stati movimenti di massa; non è lontanissimo il 2018 quando Greta Thunberg organizzò tutti i giorni del mese di agosto un’azione di protesta sedendosi al di fuori del Riksdag, con un cartello che recitava Skolstrejk för klimatet (lett. “sciopero scolastico per il clima”); da lì il fenomeno dei Fridays for Future ha portato nelle piazze, anche italiane, centinaia di migliaia di persone soprattutto giovani e giovanissimi (nelle due date principali della Climate Action Week, il 20 e il 27 settembre del 2019, nel mondo sono scese in piazza oltre 7,6 milioni di persone!). Anche questo movimento ha dovuto fare i conti con gli anni della pandemia e i successivi appuntamenti non hanno registrato, nemmeno in Italia, partecipazioni così oceaniche.
Nel novembre del 2019 a Bologna nacque il movimento delle “Sardine”; movimento più dichiaratamente “politico” perché nato in occasione delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna del 2020 per opporsi al populismo e al sovranismo che caratterizza(va) alcuni partiti della destra italiana. Anche in questo caso dopo la prima ondata della pandemia le attività di questo gruppo si indebolirono fortemente e alcuni dei suoi leader trovarono spazio all’interno di partiti politici e delle “Sardine” non si parla nemmeno più.

Per cambiare ci vogliono risposte collettive

Perché cito questi esempi così diversi tra loro? Perché sono gli ultimi segnali di un movimento di persone, soprattutto giovani, che si sono ritrovate e continuano a ritrovarsi seppure con minore slancio e soprattutto visibilità mediatica, non per “fare insieme qualcosa, qualche attività”, ma per “cambiare” qualcosa nel presente e nel futuro.
Se si eccettuano i recentissimi avvenimenti, molto diversi tra loro, che hanno riportato in piazza migliaia di persone (la guerra tra Israele e Hamas; l’ennesimo femminicidio), non abbiamo visto piazze piene o manifestazioni oceaniche (nemmeno quelle indette da sindacati) per molti dei problemi che quotidianamente affliggono buona parte della nostra società: la crescita della povertà assoluta e relativa, la mancanza di case e il caro affitti, la difficoltà per molti di aver accesso alle cure, il fatto che migliaia di giovani non studino né lavorino, per citarne solo alcuni.
Certo ci sono state manifestazioni, ma piuttosto “striminzite”, partecipate solo e nemmeno da tutti gli aventi interesse.
Credo che uno dei motivi della diminuzione del numero di volontari nelle organizzazioni non profit abbia a che fare anche con l’estrema difficoltà oggi di riuscire a smuovere la popolazione intorno a questioni che riguardano sì  la loro vita da vicino, ma che richiedono risposte collettive e non individuali e che, soprattutto, richiedono lo sforzo di tradurre, trasformare l’emotività e l’empatia del momento in volontà di assumersi la propria parte di responsabilità per poter agire un cambiamento.

La visione anticipatrice e visionaria del volontariato

La questione del volontariato dentro e fuori le organizzazioni non profit quindi, a mio avviso, non è un tema che si possa affrontare senza ragionare di quanto e come le stesse organizzazioni siano consapevoli dei cambiamenti in atto e di quanto e come le pubbliche amministrazioni e la politica debbano modificare prima che il loro approccio (amministrativo, regolatorio, ecc…) il loro sguardo, il loro atteggiamento nei confronti delle stesse.
Quanto al primo punto, la possibilità data dalla nostra democrazia di far sì che cittadini e cittadine si possano autonomamente organizzare per costruire soluzioni ai problemi delle comunità e dei territori ha dato vita nel tempo a quelle organizzazioni del privato non profit che oggi conosciamo: le associazioni e le organizzazioni di volontariato, le fondazioni, le mutue, le cooperative sociali, i comitati, etc., con modalità organizzative e di gestione che si sono andate via via diversificando, tutte queste realtà hanno avuto la capacità di convergere su obiettivi e raggiungere così risultati importanti. Grazie ad esse sono nate, possiamo anche dire “inventate” soluzioni e risposte a fragilità e problemi cui la politica non era stata ancora in grado di rispondere e, in alcuni casi, perfino ignorava; pensiamo all’affacciarsi negli anni Settanta del problema della tossicodipendenza e poi dell’AIDS, oppure alla necessità di ridare spazi di libertà e di cittadinanza alle persone con disabilità o con problemi di salute mentale, chiusi i primi nelle mura domestiche, i secondi nell’istituzione totale dei manicomi o ai bambini e adolescenti chiusi negli orfanotrofi. Da questa capacità di essere contemporaneamente risorsa e risposta sono nate le comunità, le case alloggio, l’inserimento al lavoro di persone prima destinate ad essere – quando andava bene- semplicemente degli assistiti a vita, i circoli culturali e ricreativi, le collette alimentari, i comitati a difesa dell’ambiente.
Risposte e proposte divenute poi parte della programmazione delle pubbliche amministrazioni, a testimoniare la vocazione anticipatrice e visionaria delle organizzazioni non profit.

Adattare le organizzazioni

Sono state proprio “quelle  «libertà sociali» (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibili né allo Stato, né al mercato, ma a quelle «forme di solidarietà» che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese «tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 309 del 2013) [2] che si sono organizzate in varie forme giuridiche: associazioni, OdV, APS, cooperative sociali, mutue, etc…
Oggi questo mondo è, come altri, attraversato da cambiamenti rapidi e ancora non del tutto intelligibili nelle possibili conseguenze, ma ancora pochi sono i soggetti che ne hanno fino in fondo consapevolezza e si stanno adoperando per “adattare” le loro organizzazioni in modo da assicurarsi la possibilità di continuare a svolgere in modo significativo il loro ruolo. La maggior parte temo non si stia attrezzando a sufficienza. Per fare solo un esempio, in merito ad una delle più grandi trasformazioni in atto nel nostro tempo, quella digitale e tecnologica: mentre si sta discutendo di come regolare l’AI per evitare che da un lato ci sia il reale, dall’altro la sua rappresentazione e che quest’ultima risulti più credibile della prima, per alcune organizzazioni – e non parlo solo delle più piccole –  il tema del digitale rimane ancora sullo sfondo o, addirittura, non entra nella discussione strategica degli organismi di governance.

Ridefinire la partecipazione

Come possiamo pensare di riuscire a intercettare nuove risorse (e non parlo solo di quelle giovani, ma anche di persone di 40-50 anni) nelle nostre organizzazioni se continuiamo a svolgere le attività, gli incontri, a prendere le decisioni con le solite modalità, negli stessi orari, con gli stessi schemi mentali, gli stessi strumenti? Sarà sempre più raro trovare persone che possano dedicarsi al volontariato per intere giornate o quasi “a tempo pieno” per i motivi già accennati; stiamo pensando a nuove forme organizzative? Stiamo dando spazio – anche e soprattutto di decisione – a quanti sono disponibili a fare volontariato ma non secondo tempi e modi nostri? Se anche nel settore lavoro stiamo assistendo a una fuga (Great Resignation)[3]  da posti di lavoro anche quando non ce n’è uno nuovo all’orizzonte, come possiamo pensare che alcuni tra i fattori che stanno alla base di questo fenomeno non interessi anche il volontariato? Le nostre organizzazioni devono interrogarsi su come rendere “compatibile” l’impegno volontario con altri aspetti della vita ritenuti rilevanti (come la famiglia, il lavoro, lo studio) e devono saper ridefinire la partecipazione adattandola a una disponibilità che per il fatto di essere più intermittente, saltuaria non è meno preziosa e significativa, soprattutto se questa disponibilità “parziale” è data da competenze nuove, quali quelle digitali o amministrative e gestionali, che sono così preziose e necessarie per le nostre organizzazioni.

I volontari “fanno”, lo Stato “sa”

Quanto al secondo punto: abbiamo visto come lo Stato abbia solo tratto vantaggio dalla capacità delle organizzazioni non profit di segnalare problemi e, contemporaneamente, anticipare le soluzioni. Ma nel crescere, difficile e complicato, di questa collaborazione, via via che molti dei servizi e delle soluzioni inventate dalle organizzazioni non profit diventavano parte del welfare state, la pubblica amministrazione da un lato ha accettato di buon grado che le organizzazioni di terzo settore concorressero a organizzare e realizzare le attività con cui rispondere ai crescenti bisogni della persona e delle famiglie o svolgere attività per affrontare i problemi in campo ambientale, sociale, culturale, delle relazioni internazionali, dall’altro, quando si passava a programmare politiche e misure con cui affrontare strutturalmente i bisogni, quando si trattava di ascoltare la voce e le proposte dei cittadini attivi, la diffidenza e la supponenza ha impedito si andasse avanti. Quella era materia esclusiva della pubblica amministrazione; i volontari possono “fare”, ma è la pubblica amministrazione, lo Stato che “sa” cosa si deve fare. Nemmeno le innovazioni della Riforma del Terzo Settore sembrano aver davvero modificato questo atteggiamento.

Recuperare il senso del “fare per gli altri”

A lungo andare questa interpretazione del ruolo delle organizzazioni non profit ha influenzato anche l’agire delle stesse, che si sono via via sempre più concentrate sulle attività da svolgere piuttosto che su come cambiare la società; hanno chiesto ai cittadini di diventare volontari per aumentare le iniziative, piuttosto che ascoltare cosa di nuovo avevano da dire, quali nuovi problemi avevano colto sul territorio, quale desiderio di partecipazione attiva manifestavano. In questo modo il mondo del volontariato si è in qualche modo disperso in una miriade di piccole o piccolissime associazioni, comitati, a volte composti da poche decine di persone; ognuna concentrata sul proprio compito, più o meno uguale ora a quando sono nate, più o meno funzionale e gradito all’amministratore o al sindaco di turno, non si sa se davvero utile a modificare le condizioni di quei cittadini e cittadine che usufruiscono del loro operato. Ciò che conta è impiegare del tempo “facendo qualcosa per gli altri” indipendentemente dall’efficacia generata dalle loro attività.
Un volontariato concentrato solo su cosa fare e su come farlo, ma che si dimentica del perché (cioè del senso) è il soggetto ideale per le Pubbliche Amministrazioni “miopi” che lo impiega per tappare i buchi delle inefficienze nei servizi e della incapacità di definire strategie non emergenziali e che poi lo ricambia con elogi, premi, riconoscimenti, medaglie ed attestati, ma non lo fa entrare nei luoghi delle decisioni e della programmazione.

Dai bisogni individuali alle soluzioni collettive

Per riuscire a far sì che le nostre organizzazioni non si assottiglino ancora di più in termini di volontari/e serve soprattutto occuparsi e pre-occuparsi di creare spazi di tempo e luoghi anche fisici in cui le persone possano tornare a incontrarsi per capire insieme come bisogni individuali (e sono tanti: casa, lavoro, educazione, istruzione, lavoro di cura, tutela dell’ambiente, mobilità…) possano tradursi in soluzioni collettive; soluzioni che non risolvono semplicemente un problema per “me”, ma si connettono a un’idea di giustizia sociale per “noi”.
Come far sì che genitori che si sono occupati e appassionati dei problemi della scuola frequentata dal loro figlio, non smettano di occuparsi di questi problemi quando il loro figlio non la frequenta più? Come evitare che condomini e cittadini che si sono impegnati a ripulire uno spazio pubblico, abbellire una strada, attrezzare un parchetto non ne diventino poi i gelosi e sospettosi custodi che vegliano sull’utilizzo di “estranei” e così facendo, pur essendo mossi dalla motivazione di riconsegnare uno spazio degradato a una funzione di socialità e di partecipazione, la perimetrano solo agli “aventi diritto”?
Alle organizzazioni non profit dobbiamo chiedere di essere sempre di più, o tornare ad essere, luoghi nei quali le persone – intese come cittadini e cittadine e non solo come associati – apprendono, imparano cosa significa esercitare protagonismo e partecipazione in modo democratico; luoghi in cui si riflette sul nesso profondo e inscindibile e sulla coerenza che ci deve essere tra i valori e i principi della nostra Costituzione e l’azione svolta dalla propria organizzazione; luoghi in cui le persone possono esprimere il loro desiderio di vivere in una società più equa e meno diseguale, esercitando insieme la capacità di interrogare i fenomeni che accadono nelle loro comunità, confrontandosi con visioni, culture, interpretazioni diverse e allenandosi ad agire per trovare un accordo e non semplicemente  trovare un accordo per agire.

Accendere speranze, smuovere responsabilità

È proprio a questa capacità che una pubblica amministrazione lungimirante, a tutti i suoi livelli, dovrebbe saper guardare per incentivarla, agevolarla, sostenerla, riconoscendo che il valore profondo del Terzo Settore e delle organizzazioni non profit non sta nelle cose che fa, ma nelle speranze che accende, negli spazi di libertà che costruisce, nelle responsabilità che smuove. Valore e funzione decisamente politiche.
Le organizzazioni non profit oggi hanno davanti questa difficile ma entusiasmante sfida se vogliono da un lato non dissipare quanto di positivo hanno realizzato e, dall’altro, riuscire a intercettare risorse nuove: essere lo strumento, anche mettendo in discussione le loro prassi e i modelli organizzativi, attraverso il quale si ampliano e si moltiplicano i luoghi in cui esercitare la cittadinanza, sperimentare legami e relazioni, condividere con altri la responsabilità civile e sociale, lasciandosi interrogare e anche provocare dalla domanda di futuro che le giovani generazioni, ma non solo queste, a volte anche in modo confuso e contraddittorio, portano con sé.

Valeria Negrini è impegnata dal 1990 nel mondo delle organizzazioni non profit e del terzo settore. Attualmente è Portavoce del Forum Terzo Settore della Lombardia, presidente di Confcooperative-Federsolidarietà Lombardia e vice-presidente di Fondazione Cariplo.

 

[1] Prevalgono nella distribuzione sul territorio le regioni settentrionali, insieme a quelle centrali con 1.165 volontari per 10mila abitanti nel Nord-est, 892 nel Centro e 887 nel Nord-ovest. Nel Sud e nelle Isole si rilevano rispettivamente 492 e 509 volontari per 10mila abitanti. Rispetto al 2015 è cresciuta l’incidenza delle INP di piccolissime dimensioni, con uno o due volontari (11,4% nel 2021, a fronte del 7,9% nel 2015) e cresce anche la quota dei volontari delle istituzioni di dimensioni medio-grandi (29,7% di volontari a fronte del 27,4% nel 2015).

[2] Sentenza Corte Costituzionale n. 131 del 2020 – pubblicata in GU n. 27 del 1.07.2020

[3] Gli effetti di questo cambiamento si sono visti anche in Italia come emerge dalla ricerca «Dentro l’epoca della Great resignation. I nuovi fattori di attrattività del lavoro nella società che cambia». Realizzata da Bibliolavoro e Sindacare – Ufficio vertenze Lombardia, grazie ai dati forniti da Cisl Lombardia, nel 2021 ha registrato 2 milioni di dimissioni, che nel 2022 sono arrivate a 2,2 milioni. Un aumento del 35% rispetto al 2019, con 474 mila dimissioni in più. Numeri presenti anche in Lombardia, che ha registrato 420 mila dimissioni nel 2021 e 566 mila nel 2022, circa il 12% dei lavoratori occupati. Non sono più fattori oggettivi come la retribuzione a rendere un lavoro soddisfacente, ma ci sono fattori più soft di carattere più sociale e psicologico come evitare un eccessivo carico di stress lavoro-correlato o l’accesso a misure di conciliazione tra vita lavoro e vita personale. I settori più interessati sono il terziario, il commercio e le attività di ristorazione proprio dove è difficile sperimentare la conciliazione e dove i fattori di stress sono più evidenti. Questa volontà di cambiamento dei lavoratori ha colpito ogni fascia generazionale, ma il dato che più marca questo fenomeno sono le prospettive future: sei lavoratori su dieci avevano già un’alternativa quando hanno deciso di dimettersi, ma il 40% ha optato per un salto nel vuoto, non avendo ancora un impiego certo.

Immagine di copertina: Cristi Tohatan su Unsplash

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