Articolata in sette aree diverse – industria, turismo, agroalimentare, localismo e sussidiarietà, innovazione, tecnologia, arte e cultura – la ricerca si propone di ricostruire una geografia dell’Italia a partire dalle eccellenze che essa presenta, evidenziando una strategia di lungo periodo che in settori diversi ha scelto di investire sulla qualità.
Come evidenziato nella premessa, “la forza dell’Italia risiede soprattutto nella sua economia “reale”, nel suo sistema socioeconomico dinamico e diffuso sul territorio, che coniuga tradizione ed innovazione, varietà e qualità nel’offerta di prodotti e servizi apprezzati in tutto il mondo”. In quest’ambito, sussidiarietà diviene sinonimo di cultura del territorio e di solidarietà, che trova nei distretti industriali e nel ruolo del terzo settore i suoi pilastri fondamentali.
I distretti industriali tra localismo e sussidiarietà
I distretti, considerati a fasi alterne un elemento di forza o di debolezza del sistema produttivo italiano, costituiscono, secondo la celebre definizione di Becattini, “un’entità socio̼territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” (p. 54). L’esperienza dei distretti, anche se non priva di contraddizioni, dimostra che quando la dimensione economica e quella sociale sono maggiormente compenetrate tra loro a beneficiarne è l’intera comunità, sia in termini di sistema produttivo che di tessuto sociale.
Infatti, come evidenziato nel rapporto, “un altro aspetto peculiare dei DI è la combinazione tra competizione e collaborazione tra le imprese. All’interno del “Distretto” la competizione tra le imprese è assai forte e seleziona le aziende migliori e più efficienti. Ma, nello stesso tempo, le imprese dei DI spesso collaborano tra di loro e con le istituzioni locali (un altro classico esempio di sussidiarietà “orizzontale”) a progetti comuni come iniziative per la promozione all’estero dei prodotti del “Distretto”, consorzi per gestire i problemi ambientali, informatici o l’acquisto di energia elettrica, ecc.” (p. 54). È inoltre un sistema produttivo che nasce con una vocazione ai rapporti con l’estero in quanto intrinsecamente autonomo rispetto agli aiuti statali e al modello della grande impresa, vincolata al mercato interno e a posizioni di monopolistiche.
Il Terzo settore: un modello di sussidiarietà
L’altro elemento di originalità del sistema produttivo italiano è rappresentato dal ruolo svolto al suo interno dal terzo settore. Anche in questo caso si tratta di un modello che coniuga elementi propri della dimensione dell’economico con una spinta solidale che affonda le sue radici nel tessuto sociale. Sul piano metodologico permane la difficoltà anche tra gli addetti ai lavori di definire e misurare il terzo settore. La “tradizionale distinzione per “famiglie” (volontariato, cooperazione, associazionismo di promozione sociale, sportivo, ecc.) ha poi imboccato la via di classificazioni nuove (onlus, impresa sociale) basate su distinzioni di carattere “orizzontale” accessibili indifferentemente dalle forme giuridiche di partenza” (p.74).
Il rapporto stima in oltre 3mila le associazioni non profit in Italia, con un incremento significativo a partire dal 1991, anno che ha segnato la svolta per il terzo settore grazie all’emanazione delle prime normative per il volontariato e la cooperazione, che hanno aperto la strada al riconoscimento delle organizzazioni non profit nell’ordinamento italiano. A questo dato si aggiunge il boom delle fondazioni: nel 25 il 75% delle fondazioni risultava nato dopo il 1985. I settori di attività del non profit vanno dall’ambito sportivo e ricreativo a quello socio-assistenziale, dal settore della ricerca a quello della rappresentanza d’interessi e alla sanità.
Dal rapporto si evince un trend in salita del terzo settore, in gran parte dovuto alla crisi di un modello di welfare che in pochi ha trasferito ad esso “molti servizi prima erogati direttamente dalle pubbliche amministrazioni. Il processo che in modo non corretto è stato etichettato come passaggio dal “welfare state” al “welfare mix” ha in realtà prodotto due evidenti fenomeni: il primo è stato quello, nella maggior parte dei casi, di cercare il beneficio immediato del risparmio esternalizzando servizi cronicamente poco efficienti (chiedendo al Terzo Settore di essere erogatore anzitutto accondiscendente); il secondo è quel fenomeno che ha indotto, quando non pilotato, la nascita di soggetti di Terzo Settore ad hoc, utili alle contingenti esigenze di esternalizzazione di questa o di quella Pubblica Amministrazione” (p.79).
Ciò che gli studi raramente evidenziano sono i fondamenti culturali di un fenomeno che troppo spesso viene analizzato solo in termini di soluzioni che è in grado di offrire alla crisi dello stato assistenziale. Infatti, “nonostante la sussidiarietà sia diventata precetto Costituzionale, è ancora assai difficile trovare sistemi di welfare regionale/locale che al di là degli enunciati di principio pratichino e riconoscano pari dignità agli attori pubblici e privati e quindi riconoscano al Terzo Settore la propria originaria funzione di “connettore dinamico” fra responsabilità di governo, sistema di servizi e istanze della comunità” (p.79).
Sussidiarietà = Qualità
La novità introdotta dal richiamo alla sussidiarietà nell’analisi dei sistemi produttivi locali e del terzo settore è riconducibile al fatto che la sua applicazione costituisce un valore aggiunto in termini di partecipazione dei cittadini alla definizione delle politiche pubbliche. Tale aspetto consentirebbe di aggirare il carattere dirigista dei sistemi di welfare che, per quanto capaci di costruire attorno al cittadino un sistema di sicurezze, non hanno tenuto in debito conto la dimensione qualitativa del servizio offerto o meglio ancora, la reale capacità di andare incontro alle specifiche esigenze dei fruitori finali.
Da questo punto di vista, la sussidiarietà riavvicina i processi decisionali ai destinatari finali, soddisfacendo altresì il bisogno di appartenenza e di identificazione in una comunità, alla definizione della quale i cittadini possono dire di aver dato un contributo attivo. Nel caso italiano, ciò comporta due cambiamenti di lungo periodo: 1) sul fronte dei cittadini, una maggiore diffusione del senso civico e 2) su quello delle amministrazioni, un mutamento radicale della cultura politico-amministrativa.