Il volume “Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro” di Cristina Videtta affronta un binomio che, se pur spesso evocato nel discorso politico e scientifico, è stato fino ad oggi sostanzialmente inesplorato dalla dottrina giuridica. E questo è già un pregio.
A ciò si aggiunga che la complessità, direi l’indeterminatezza dei due concetti studiati non compromettono affatto l’estrema chiarezza espositiva dell’autrice. Si individua, anzi, quasi un contrasto tra le capacità di analisi e organizzazione dello studio di Videtta e l’inevitabile vaghezza dei termini giuridici di riferimento. Eppure l’autrice li sa ben riportare e interpretare alla luce di norme e principi che coglie sia nel nostro ordinamento che nel contesto internazionale, evidenziando la connessione non sempre scontata (eppur così fertile) tra la cura del patrimonio culturale e la tutela dell’ambiente, e l’impegno che la stessa connessione sollecita.
La posta in gioco
Un impegno, fa capire l’autrice, necessario se non addirittura entusiasmante (almeno nelle intenzioni) se è vero che la posta in gioco non è semplicemente la regolazione dei processi politici, sociali ed economici che muovono gli uomini, gli Stati e le relazioni tra questi. Si cerca piuttosto, in una prospettiva che rasenta l’utopico, la possibile costruzione, solida e permanente, di un mondo di Pace, intesa qui come dimensione ideale del futuro prossimo venturo dell’intera umanità.
Obiettivo, la Pace, che ovviamente non si ritrova declinato nelle norme e nei documenti presi in esame, ma che – come l’autrice stessa ammette –esiste a ben guardare al di là dei dettati testuali, rappresentando l’implicito ma essenziale risultato che s’intende perseguire fin da quando l’espressione “sviluppo sostenibile” è stata coniata. Un traguardo del genere, per quanto lontano, non solo merita adeguata attenzione, ma induce anche a moltiplicare le energie intellettuali e l’impegno concreto per la sua realizzazione, anche nella trattazione di aspetti apparentemente più circoscritti e limitati della questione.
Quanto è sostenibile lo sviluppo?
Dal 1972, da quando la Gro Brundtland fissò il significato di “sviluppo sostenibile” quale “soddisfazione dei bisogni contemporanei senza compromissione della soddisfazione di quelli futuri”, sia nell’azione politica che nella produzione normativa ci si è mossi in molte direzioni, nel tentativo di tradurre in pratica il nuovo principio. Il quale risulta peraltro più comprensibile e “gestibile” se riferito al profilo più strettamente ecologico dell’esistenza umana: in fondo, com’è evidente, il concetto di “risorse” – limitate o rinnovabili, inquinanti o “pulite” – è oramai di uso familiare non solo per scienziati, politici e legislatori, ma anche per i cittadini qualsiasi, almeno in certa misura.
Tutto si complica quando si tenta l’applicazione della stessa formula al “bene culturale”, dato che non è ancora chiaro, esattamente individuato (ne è nota la natura “plurale”) e comunemente accettato da tutti quale insieme di cose – materiali e immateriali – costituiscano il “patrimonio” a cui ci si riferisce. Quel che è certo è che l’insieme di territorio e attività umane che all’interno di questo si sviluppano – o si sono sviluppate nel passato – costituiscono il tratto identitario essenziale di una comunità, o meglio di un popolo. E, nel complesso, dell’intera umanità, che deve dunque regolare il proprio progresso per trovare un equilibrio tra ciò che è, ciò che sarà e ciò che è stato, al fine di non disperdere dette identità e, allo stesso tempo, favorirne la reciproca comprensione, e la più ampia e possibile armonia.
L’Italia e il comma 2 art. 3 “quater” del T.U.A.
Dunque, se il legislatore italiano ha voluto trasformare la tutela del bene culturale nel quarto, e forse decisivo fattore del più ampio concetto di “sostenibilità ambientale”, l’autrice si muove a cogliere, ampliare e approfondire il significato di questa declinazione. Lo fa bene, come si è detto, mai dimenticando l’anelito ideale, e nemmeno i limiti e le potenzialità tutt’ora inespresse da quanto previsto dal Testo Unico per l’Ambiente (T.U.A.) e, ancor più precisamente, al comma 2 dell’articolo 3 quater.
La disposizione prevede che “nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotati da discrezionalità”, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale debbano essere “oggetto di prioritaria considerazione”. In questa scelta preferenziale Videtta individua la possibile, compiuta realizzazione di quanto appare implicitamente richiesto dall’articolo 9 della Costituzione, laddove la tutela del patrimonio artistico e culturale, di pari passo con l’equilibrio ecologico ambientale, viene intesa come vera garanzia di sviluppo sostenibile, capace di assicurare lo sviluppo delle attività economiche e sociali senza che si perdano quei beni e quelle caratteristiche che contribuiscono alla formazione dell’identità nazionale. E ciò nonostante il fatto che, come più volte è rimarcato, specie nella comparazione con altre norme dello stesso T.U.A. la formulazione “oggetto di prioritaria considerazione” non sia sempre sufficiente a dare al comma 2 e all’intero articolo 3 quater 1 quella forza prescrittiva che, probabilmente, è rimasta nella penna del legislatore. Una (pur decisa) indicazione piuttosto che una prescrizione. Che, alla fine, ha di fatto finora troppo spesso contribuito a complicare il quadro normativo sulla tutela artistico-culturale, piuttosto che a chiarire definitivamente il valore della stessa.
Rimettere mano alla norma?
Il testo conclude con una raccomandazione. E se il discorso condotto de jure condendo si rivela spesso fragile, o superfluo, in questo caso sembra quasi naturale. Si è detto infatti che la finalità del comma 2 articolo 3 quater del T.U.A. è quella di espandere il concetto di tutela artistico-culturale, trasformandolo in un elemento essenziale del più ampio principio dello sviluppo sostenibile. Si è detto – ancora – che lo sviluppo sostenibile così declinato è il presupposto sostanziale di una società il cui sviluppo si rivela rispettoso delle identità culturali, delle differenze e delle pluralità antropologiche nel loro mutare nel tempo e nello spazio. Si è infine sostenuto che, a livello internazionale, l’armonica convivenza di cultura e sviluppo può diventare la chiave per una più pacifica convivenza tra i popoli.
A questo punto l’autrice non può che concludere affermando che la politica dovrebbe rimettere mano al testo precisandone gli ambiti e le forme di applicazione. Il rafforzamento della disposizione italiana avrebbe poi significato speciale, in un paese dove si è imposto il concetto di “museo diffuso”, la delicatezza dell’equilibrio tra attività economiche, insorgenti esigenze sociali e necessità di non disperdere il patrimonio che la Natura e il Genio ci hanno lasciato in eredità.
Il problema è quindi qui più grave che altrove, e più urgente è la sua soluzione che muove senz’altro nel senso di assicurare l’interesse collettivo negli inevitabili contrasti con i privati, ma anche nei conflitti di competenza che spesso caratterizzano i rapporti tra le diverse amministrazioni. Né incertezza può esserci, se è vero che dev’essere assicurata alla società la possibilità di garantirsi piena potenzialità di sviluppo, evitando però sempre e comunque la compromissione definitiva non solo delle risorse naturali, ma anche dei tesori accumulati nel tempo la cui fruibilità va garantita, per certo, anche alle future generazioni.