I patti di collaborazione sono atti amministrativi attraverso i quali si può fare politica sul territorio. E sono anche uno spazio di libertà dove i cittadini, fra le altre cose, imparano a diventare custodi della democrazia

Nel corso di questi intensissimi anni di promozione in tutta Italia (e non solo…) del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni abbiamo imparato tante cose dalle persone e dalle situazioni che abbiamo incontrato. Una di queste è che i patti di collaborazione sono molto, ma molto di più che non semplici atti amministrativi per regolare i rapporti fra amministrazioni e cittadini attivi.
Sapevamo ovviamente che i patti hanno innanzitutto una funzione materiale, quella di migliorare la qualità dei beni pubblici consentendo ai cittadini di prendersi cura di questi beni all’interno di un quadro di regole e garanzie giuridiche. Nel tempo, poi, abbiamo scoperto un altro effetto dei patti che quando presentammo il Regolamento a Bologna nel 2014 non avevamo previsto, certamente non nella misura in cui poi si è sviluppato. E’ l’effetto dei patti sulle relazioni fra le persone, quello che descriviamo dicendo che i patti “fanno comunità”, producono coesione sociale, senso di appartenenza e integrazione. In particolare, in questi ultimi anni ci siamo resi conto che i patti aiutano molte persone a difendersi dalla “seconda pandemia”, la pandemia della solitudine, creando opportunità di incontri e nuove relazioni che poi proseguono anche oltre le attività di cura dei beni pubblici.
Oltre a queste due funzioni i patti molto probabilmente ne svolgono anche altre, che magari scopriremo con il tempo. C’è però una terza funzione, che sta emergendo in questo periodo, che è importante mettere in evidenza ed è il ruolo che l’amministrazione condivisa (di cui i patti sono uno strumento) può avere nel rafforzamento della democrazia.

L’equilibrio fra sovranità popolare e diritti di libertà

Ovunque nel mondo oggi è in pericolo la forma di democrazia che, grazie ad un delicato equilibrio fra sovranità popolare e diritti inviolabili delle persone, ha garantito negli ultimi 80 anni libertà e benessere in molti Paesi. Nelle democrazie costituzionali il principio della sovranità popolare garantisce l’affermazione della volontà del popolo (art. 1 Costituzione), ma al tempo stesso la Costituzione garantisce l’inviolabilità dei diritti individuali (art. 2) grazie alla protezione offerta dallo Stato di diritto (Rule of Law).
Il populismo rompe questo equilibrio facendo prevalere la volontà del popolo (o meglio, quella che certi leaders dicono essere la volontà del popolo…) rispetto ai diritti dell’individuo. Ecco perché nei Paesi in cui sono al potere leaders populisti essi impediscono il funzionamento del complesso sistema di pesi e contrappesi che finora ha retto le democrazie liberali per dar vita a quelle che vengono chiamate “democrazie illiberali”.
Questo fenomeno ci riguarda tutti in quanto cittadini, ma ci riguarda in particolare come Labsus perché una delle caratteristiche principali delle democrazie illiberali è la restrizione dei diritti di libertà, mentre una delle caratteristiche principali dell’amministrazione condivisa è il rafforzamento dei diritti di libertà e l’apertura di nuovi spazi (oltre a quelli tradizionali) per l’esercizio di tali diritti. E ciò avviene proprio grazie ai patti di collaborazione, che in questo caso svolgono una terza, preziosa funzione, quella di cura della democrazia, oltre a quelle di cura dei beni e cura delle persone.

I patti come spazio di libertà

I patti di collaborazione sono infatti fra le altre cose anche spazi di libertà. In realtà tutte le attività fondate sul volontariato, cioè su una libera scelta, sono spazi in cui le persone possono esprimersi liberamente, facendo emergere competenze e capacità che spesso non sono riconosciute nei loro ambienti di lavoro o familiari.
Ma i patti di collaborazione si prestano forse più di altri ambiti della vita sociale a far emergere i talenti nascosti delle persone, perché a differenza di quanto accade nelle tradizionali organizzazioni di volontariato, dove le gerarchie, le regole e gli obiettivi sono in genere consolidati, nei patti i rapporti sono per definizione paritari e le regole sono decise insieme, così come gli obiettivi, che nel tempo possono essere integrati, essendo i patti “luoghi” per lo svolgimento di funzioni di interesse generale, non organizzazioni.

Fare politica mediante i patti

Quando un gruppo di “pattisti”, cioè di cittadini che hanno sottoscritto un patto, si attivano per realizzare quanto previsto dal patto stesso, essi trasformano il bene pubblico oggetto del patto in un bene comune, curato e difeso dai cittadini, migliorando la qualità della vita nel loro quartiere o nel loro paese. Mentre fanno tutto questo creano nuove relazioni, rafforzano quelle già esistenti, si sentono parte di un gruppo di persone diverse fra loro però tutte unite dal desiderio di impegnarsi in prima persona nell’interesse della comunità.
Naturalmente all’interno di un patto di collaborazione ci sono discussioni, conflitti, mediazioni, si redigono documenti, si organizzano riunioni, si fanno proposte, interventi in pubblico, raccolta di fondi e molto altro ancora. Sono tutte attività finalizzate alla realizzazione di un patto, ma se le si considera da un altro punto di vista queste sono esattamente le attività che si svolgono quando si fa politica.
In altri termini, anche se i cittadini che realizzano i patti quasi mai ne sono consapevoli, le attività che essi svolgono sono attività di tipo “politico”, nel senso più ampio e nobile del termine. E quindi si può dire che i patti sono atti amministrativi attraverso i quali si può fare politica sul territorio.
E’ un aspetto dei patti che sarebbe importante valorizzare, soprattutto in questi tempi di rifiuto del voto e della militanza nei partiti, le forme in cui tradizionalmente si esprime la cittadinanza. Ma naturalmente nel valorizzare la dimensione politica dei patti bisognerebbe sempre sottolineare che l’amministrazione condivisa ed i patti non sono collocabili all’interno delle tradizionali categorie politiche. Non esistono cioè patti di sinistra o patti di destra, perché prendersi cura dei beni comuni non è un’attività di destra o di sinistra, è semplicemente nell’interesse generale, come dice l’art. 118, u.c. della Costituzione.
E infatti nella nostra esperienza normalmente i pattisti non si pongono il problema di come votano gli altri partecipanti al patto, perché evidentemente c’è la percezione che quanto si sta facendo va a vantaggio di tutta la comunità, a prescindere da distinzioni di tipo politico, sociale o di altro genere. Inoltre nel corso di questi 11 anni di vita del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni abbiamo visto cambiare anche radicalmente le maggioranze in comuni che avevano adottato il Regolamento senza che ciò influisse sull’uso dei patti di collaborazione, che hanno continuato ad essere utilizzati come nelle precedenti consiliature.

Politici e statisti

La sfida consiste perciò nel trovare il modo di rendere i cittadini che partecipano ai patti consapevoli del fatto che attraverso i patti possono fare politica sul territorio, senza però che i patti vengano strumentalizzati da singole parti politiche.
Questo è possibile se si tiene presente che la politica che si può fare attraverso i patti non è facilmente sfruttabile in chiave partitica, perché è il tipo di politica a cui pensava Alcide De Gasperi quando diceva che: “I politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni”.
In questo senso la politica che i cittadini attivi fanno attraverso i patti è una “politica da statisti”. Perché è vero che i risultati concreti e immediati che loro ottengono curando i beni comuni vanno a vantaggio di tutti coloro che in quel momento fanno parte della comunità locale, sia in termini di migliore qualità dei beni pubblici, sia in termini di rafforzamento dei legami di comunità. Ed è anche vero che, se nell’ottenere quei risultati i “pattisti” sono stati sostenuti dagli amministratori locali, questi ultimi ne avranno un vantaggio in termini di popolarità e quindi anche di sostegno elettorale, perché vorrà dire che hanno saputo usare bene gli strumenti dell’amministrazione condivisa, oltre a quelli dell’amministrazione tradizionale. Ma oltre ai vantaggi immediati prodotti dalla cura dei beni comuni e delle persone i patti producono anche effetti a lungo termine, a vantaggio appunto delle future generazioni.

La valenza politica del “prendersi cura”

Un primo effetto a lungo termine riguarda le attività di cura dei beni comuni. Abbiamo detto che prendersi cura dei beni comuni non è un’attività di destra o di sinistra, è semplicemente nell’interesse generale. Questo però non vuol dire che non ci siano più la destra o la sinistra o che l’amministrazione condivisa ed i patti siano politicamente neutrali, anzi!
Vuol dire solo che la valenza politica del “prendersi cura” dipende non da un’etichetta di partito, ma da una diversa visione della società in cui vogliamo vivere. E’ evidente che una società come quella che promuove Labsus, fondata sul “prendersi cura” sia dei beni, sia delle persone, è una società profondamente diversa da quella promossa da certi “imprenditori della paura” che costruiscono le loro carriere politiche fomentando l’odio, il razzismo, il risentimento e la rabbia di persone spaventate dall’incertezza e dai cambiamenti epocali in corso.
In questo senso quella che fanno i cittadini attivi attraverso i patti è una politica da statisti, perché il loro comportamento mostra in maniera molto efficace che è possibile costruire per noi e per le future generazioni una società fondata sul “prendersi cura”, anziché sulla predazione e lo sfruttamento sia delle persone, sia dei beni.

La sostenibilità dei patti

Un secondo effetto a lungo termine della politica che fanno i cittadini attivi attraverso i patti riguarda il rapporto locale/globale che è insito nella struttura stessa dei patti. I beni pubblici di cui si prendono cura i cittadini attivi, trasformandoli in beni comuni, sono sempre beni locali, cioè beni situati nel loro territorio. D’altronde non può essere diversamente, perché soltanto chi vive in un determinato territorio ha le informazioni, le relazioni, il tempo e l’interesse necessari per prendersi cura dei beni locali.
Si tratta dunque di rendere i pattisti consapevoli che quando si prendono cura di un bene locale, soprattutto se si tratta di un bene ambientale, di fatto stanno contribuendo alla cura di un pezzo del pianeta, conferendo a quel bene lo status di bene comune locale/globale. E’ in questa prospettiva che va letto il riferimento all’interesse generale dell’art. 118, ultimo comma della Costituzione, perché contribuire alla rigenerazione ed alla cura mediante un patto di un’area verde abbandonata, una piazza, un parco, un corso d’acqua, un bosco, una spiaggia, etc. è un modo molto concreto, semplice ed efficace per contribuire alla sostenibilità complessiva del sistema prendendosi cura del pianeta, nell’interesse non solo di tutti gli esseri viventi, ma anche delle generazioni future.

Nuove forme di democrazia

Infine, un altro effetto a lungo termine dei patti riguarda quella che abbiamo chiamato la funzione di cura della democrazia. L’espansione delle democrazie illiberali e dei regimi totalitari sta restringendo gli spazi di libertà, tanto più quindi dobbiamo difendere e rafforzare gli spazi di libertà che i patti ci offrono. Grazie infatti al principio costituzionale di sussidiarietà, alla teoria dell’amministrazione condivisa ed ai patti di collaborazione noi siamo in grado di sperimentare quotidianamente nuove forme di partecipazione alla vita pubblica, cioè nuove forme di democrazia.
In un’epoca in cui ormai da tempo i partiti tradizionali hanno smesso di formare classe dirigente, i patti di collaborazione sono uno dei pochi luoghi oggi rimasti dove le persone possono incontrarsi con altre persone per confrontarsi su problemi che riguardano tutti e che solo con la collaborazione di tutti, istituzioni comprese, possono essere risolti.
In tutte le fasi della co-progettazione e poi della gestione di un patto i cittadini attivi “usano” i loro diritti costituzionali (libertà di opinione, riunione, associazione, etc.) imparando come si esce dai problemi insieme con gli altri, imparando cioè a fare politica. In questo senso, le migliaia di patti di collaborazione sottoscritti in tutta Italia sono, oltre a tutto il resto, anche palestre diffuse di democrazia, che formano cittadini attivi, responsabili e solidali, con un livello medio di alfabetizzazione politica e istituzionale molto più alto di quello della maggioranza degli italiani.
Dobbiamo riflettere su come sviluppare ulteriormente questo ruolo dei patti come “luoghi” dove si fa politica, nel senso più ampio e nobile del termine e dove si aprono nuovi spazi di partecipazione e di democrazia, per valorizzare il ruolo dei cittadini attivi come risorsa per la democrazia.
Potrebbe essere interessante, per esempio, sperimentare forme di coordinamento fra i diversi patti attivi nello stesso territorio, in modo da moltiplicarne gli effetti sulle politiche pubbliche messe in atto dalle amministrazioni locali.
Oppure un’altra strada che si potrebbe percorrere riguarda i programmi delle Scuole di cittadinanza, che potrebbero essere rivisti per introdurre oltre ai temi collegati con la cura delle persone e dei beni anche quelli della cura della democrazia, rendendo i pattisti consapevoli che attraverso i patti possono fare politica sul territorio, nel senso detto sopra.

Diventare custodi della democrazia

In generale, nella narrazione sui patti dovremmo d’ora in poi mettere in evidenza, oltre al loro ruolo fondamentale nella cura delle persone e dei beni, anche l’altrettanto fondamentale loro ruolo nella cura della democrazia.
L’amministrazione condivisa ha bisogno della democrazia, perché un regime illiberale o totalitario non consentirebbe mai che i cittadini possano gestire autonomamente spazi di libertà come quelli offerti dai patti di collaborazione. Come s’è visto, le attività che i pattisti svolgono all’interno dei patti sono le stesse che servono per fare politica e un regime totalitario non può correre il rischio che i cittadini attivi, che per definizione sono persone intraprendenti, mentre si organizzano per curare un bene comune ne approfittino per discutere del regime.
D’altro canto anche la democrazia ha bisogno dell’amministrazione condivisa perché cittadini si nasce, dal punto di vista anagrafico, ma poi cittadini si diventa, dal punto di vista sostanziale. E la cura dei beni comuni è una forma di “educazione alla cittadinanza” di grande efficacia, che contribuisce a sviluppare quel senso civico senza il quale non c’è partecipazione e quindi non c’è democrazia.

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Immagine di copertina: Sandra Haase su iStock