La 'religiosità ' dei presidenti americani

Reagan, Carter, Wilson, Roosevelt, Eisenhower, Kennedy: tutti a loro modo 'religiosi '

Abbiamo ancora tutti negli occhi e nelle orecchie il discorso con il quale Barack Obama ha giurato sulla bibbia di Lincoln nel giorno del suo insediamento come 44mo presidente degli Stati Uniti d’America. Un discorso molto potente (che Labsus ha già pubblicato nei giorni scorsi). Con forti richiami alla responsabilità comune del popolo americano, alla missione dell’America, alla fratellanza e al dialogo tra i popoli e tra le nazioni, alle nuove sfide globali e via elencando. Un discorso che si può tra le altre cose definire, senza forzature, profondamente ‘religioso’.

La religiosità dei presidenti americani

Nulla di clamoroso, in realtà. La ‘religiosità’ dei discorsi dei presidenti americani è una costante. La si ritrova trasversalmente tra i repubblicani e tra i democratici. La si ritrova nei discorsi di presidenti dichiaratamente religiosi come Ronald Reagan, Jimmy Carter e Woodrow Wilson. La si ritrova nei discorsi dei presidenti che – con linguaggio italiano o europeo – potremmo definire ‘laici’, come Franklin D. Roosevelt, Dwight Eisenhower o John F. Kennedy. Basti citare la famosa frase di quest’ultimo: “Qui sulla terra l’opera di Dio deve davvero essere la nostra”.
E che dire di George W. Bush? Nel Messaggio sullo stato dell’Unione del 23 dove delineava il suo programma, il presidente Bush esprimeva sostanzialmente una vision in tre punti. In primo luogo, una filosofia della storia di matrice cristiana con richiami espliciti alla presenza della Provvidenza divina nella storia. In secondo luogo, la riproposizione dei miti politici centrali della nazione americana – la libertà, il popolo, l’individuo – strettamente collegati con una visione religiosa delle cose. In terzo luogo, una tesi tradizionale della politica e della coscienza di sé americana (a dire il vero, smentita in buona parte dai fatti) secondo la quale gli americani, al contrario di altri popoli della terra, non si battono per la ‘conquista’, ma sono forti in quanto pronti a sacrificarsi per la libertà altrui.
Oggi, le esperienze tragiche della guerra in Iraq e delle torture di Guantanamo, l’inadeguatezza, l’approssimazione e la superficialità della sua politica fanno sì che Bush Jr. abbandoni la scena in un corale giudizio di disistima.
Intanto, però, nonostante l’elenco delle differenze di orientamento politico sia chilometrico, il suo successore non teme di nutrire la propria retorica di numerosi elementi ‘religiosi’. La grande promessa di Obama si basa, dunque, sulle stesse fondamenta?

Voglia di ‘religione civile’

Il 13 febbraio scorso, una settimana prima dell’insediamento di Obama, il teologo Vito Mancuso ha pubblicato su La Repubblica un interessante editoriale sulla mancanza di un’etica collettiva condivisa nel nostro Paese. Secondo Mancuso all’Italia serve una ‘religione civile’ capace di informare i comportamenti dei cittadini e di alimentare la vita pubblica.
Il ragionamento è questo.
Secondo Mancuso, “una società è tanto più forte quanto più è unita, e ciò che tiene unita una società è la sua religione”, intesa ovviamente “nel senso etimologico di religio, cioè legame, principio unificatore dei singoli”. “La religione civile – continua Mancuso – è la particolare disposizione della mente per cui un antico romano concepiva Roma più importante di sé, o per cui i politici americani ripetono God bless America sapendo che è l’America l’idea che tiene insieme gli americani”. In pratica, “Roma e l’America rappresentano idee in grado di far sì che i singoli si sommino in modo ordinato, formando un sistema. E più l’idea è unificante, più il sistema è operativo”.

L’Italia della corruzione

Purtroppo, secondo Mancuso, il problema dell’Italia è proprio il fatto di non avere una religione civile.
Non è un caso, dunque, che il nostro Paese sia “ai primissimi posti in Europa quanto a corruzione. La corruzione lacera il legame sociale producendo un diffuso senso di sfiducia e sfilacciamento nel paese e un’immagine negativa all’estero”. Mancuso trova la ragione di questo fenomeno nella “mancanza, all’interno della coscienza comune, di un’idea superiore rispetto all’Io e ai suoi interessi”. In sostanza, “senza un legame di tipo ‘religioso’ con la società, nessuno sacrifica il suo particulare, nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d’importanza vitale per il nostro paese”.
Infine, il teologo conclude precisando che “la storia ci ha mostrato che una religione civile contrapposta al cattolicesimo non è politicamente concepibile in Italia” e che “una religione civile, e la conseguente etica di cui l’Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il cattolicesimo, non contro di esso”.

Perplessità e contraddizioni

Il contributo di Mancuso è molto interessante per vari motivi. Primo: perché riconosce l’importanza di una civil religion. Secondo: perché ripropone il classico vizio degli intellettuali di attribuire alla popolazione un malcostume (come quello della corruzione) che ha diverse concause e che spesso – storicamente – è coltivato dalle stesse istituzioni pubbliche o, addirittura, da un malinteso e partigiano uso del potere e dei dettami religiosi. Mentre spesso, viceversa, la società civile attiva dimostra con i fatti di aver tutte le capacità per costruire un ricco patrimonio di civiltà. Terzo: perché resta vittima di quell’approccio tipicamente italiano per il quale non vi può essere religione civile senza cattolicesimo, salvo lasciare inevasa la domanda sul perché una religione civile non sia ancora nata nel nostro Paese che cattolico è da secoli.
Ovviamente, si tratta di temi troppo vasti per essere affrontati qui diffusamente.
Certamente, si può fare almeno un’ultima osservazione. La differenza tra Europa e USA probabilmente risiede anche in questo.
In Europa, lo scontro secolare tra Chiesa e Stato ha storicamente compresso il potenziale espansivo della cittadinanza, limitato la libera manifestazione delle libertà individuali, frenato la costruzione di vere e proprie ‘religioni civili’.

Nel segno della cittadinanza

Negli USA, viceversa, lo spazio di libertà scoperto e attraversato dai primi coloni fino ai nostri giorni non è stato soltanto ‘spazio geografico’ nel quale edificare ranch e stati federali, ma è stato anche ‘spazio pubblico’ nel quale costruire una dimensione civica ed un tessuto etico condivisi. Attraverso il faticoso esercizio di libertà e responsabilità, gli americani hanno messo in gioco la loro coscienza direttamente, hanno agito, allo stesso tempo, nell’interesse proprio e nell’interesse generale (lo stesso Tocqueville annotò questa capacità di miscelare interessi privati e pubblici in un modo originale e così diverso dal modo europeo), hanno praticato in concreto la sussidiarietà senza bisogno di sacralizzarla nelle leggi.
Ecco perché, oggi, nel suo discorso inaugurale, Barack Obama può rivolgersi direttamente ai “fellow citizens” – e non ad un ceto di politici di professione, come avviene invece nei discorsi ufficiali nostrani – chiedendo “una nuova era di responsabilità, una presa di coscienza, da parte di ogni Americano, che abbiamo dei compiti per noi stessi, per la nostra nazione e per il mondo”.
Ecco perché oggi, il primo presidente nero di un paese che pure ha conosciuto lo schiavismo, può dire che i suoi cittadini abbracciano questi compiti “felici, fermi nella consapevolezza che niente soddisfa il nostro spirito e definisce il nostro carattere come il fare del nostro meglio nei momenti più difficili”.
Ecco perché Obama cita una cosa che per nessun politico italiano sarebbe un valore: il “prezzo” e la “promessa” della “cittadinanza”.