La pianificazione strategica rappresenta senza dubbio la forma più avanzata ed elaborata di “pratica partecipativa” che si sia affermata, in numerosi paesi “economicamente avanzati”, negli ultimi 2 anni (se si fa data a partire dal Government Performance and Result Act approvato negli U.S.A. nel 1993).
Nonostante molta letteratura tratti di queste esperienze nel loro complesso, è innegabile che esista una invincibile difficoltà nel riportare ad unità logica e sistematica quanto è avvenuto nelle diverse realtà , data dal fatto che i vari processi di pianificazione strategica hanno conosciuto dinamiche, logiche e quindi modalità differenti in ragione delle specificità territoriali, demografiche, produttive e sociali dell’area su cui si intendeva intervenire.
Se dobbiamo cercare gli elementi che accomunano queste situazioni, mi pare che possiamo iniziare col dire che la ratio della pianificazione strategica si caratterizza ovunque per:
– l’idea di una progettazione ad ampio spettro, che coinvolga tutte le politiche normalmente assegnate al governo locale; in questo modo si tenta non solo di delineare gli interventi che, nei diversi settori, caratterizzeranno lo sviluppo dell’area negli anni a venire, ma anche di cogliere tutti i vantaggi che possono derivare da una azione “in orizzontale”, intersettoriale, normalmente trascurata nella azione di governo. In questo senso la pianificazione strategica è processo multisettoriale e intersettoriale.
– la scelta, da parte delle amministrazioni locali, di procedere a questa progettazione in modo corale, chiamando a raccolta i diversi attori rilevanti dell’area su cui si interviene, mirando ad una condivisione diffusa delle scelte che dovranno dare forma al futuro di quella comunità . In questo senso la pianificazione strategica è processo volontario e plurale;
– il proposito di intervenire non sulla contingenza, o rispetto a situazioni determinate, ma piuttosto di voler progettare sul medio-lungo periodo e rispetto a interessi che siano propri della collettività interessata nel suo complesso, o almeno che siano rilevanti per ampie fasce delle comunità stessa. In questo senso, la pianificazione di cui descriviamo i tratti è appunto strategica e generale.
Ne discende la creazione di una relazione forte tra il potere pubblico e i privati (individui, associazioni, stakeholders) mirata a condividere (nelle più diverse modalità , come si è detto) le scelte di interesse pubblico o generale.
Il problema che però si pone a chi si appresti a rendere effettivo questo processo è quello classico di ogni pratica partecipativa (e qui ingigantito dalle dimensioni della progettazione strategica): la inevitabile tensione tra attori (e interessi) grandi e piccoli, forti e deboli, e del relativo ruolo richiesto alle istituzioni pubbliche territoriali.
Infatti, diversamente da ciò che avviene nella democrazia rappresentativa basata su sistemi elettorali in cui ogni cittadino vale come qualunque altro, nei processi di democrazia partecipativa nessuno è davvero uguale agli altri: i vari soggetti privati si manifestano e pesano in base alla loro cultura, al loro ruolo nella comunità , alla loro capacità economica, e ciò solleva sia l’esigenza di immaginare meccanismi di perequazione, sia la necessità di rafforzare, in seno alle amministrazioni locali, il compito di rappresentare anche chi (per scelta o incapacità ) non partecipa.
In questo senso, e di questi tempi, la pianificazione strategica deve quindi evolvere rispetto a schemi adottati in passato, laddove essa rappresentava (in molti casi) lo strumento per una progettazione mirata sostanzialmente a governare l’utilizzo di fondi e investimenti straordinari per eventi straordinari, o la realizzazione di infrastrutture destinate a cambiare il volto dell’area su cui si interveniva.
La crisi economica, e forse anche la diversa sensibilità diffusa oggi nel paese, fa sìche adesso questo tipo di pratica rappresenti soprattutto l’occasione per una chiamata a raccolta di tutte le forze attive, dalle più “strutturate” alle più piccole”, attorno ad una visione del futuro che sia condivisa e che renda i diversi attori in campo, pubblici e privati, protagonisti e responsabili non solo nella ideazione, ma anche nella costruzione della comunità in cui si desiderare vivere.
Nella prospettiva che sosteniamo è facile dunque immaginare come questo possa davvero essere il momento in cui, per la prima volta in modo cosìchiaro e ampio, si rende possibile un incontro e un dialogo tra istituzioni pubbliche, forze economiche e le risorse della cittadinanza attiva. E ciò con il triplice obbiettivo di giungere a
– la definizione aggiornata dei rispettivi spazi di azione;
– la determinazione (non più solo teorica) della categoria di quei beni comuni che la stessa comunità sente come propri e adeguati al contesto specifico;
– la creazione di circuiti virtuosi tra i diversi ambiti, nel segno della collaborazione e della integrazione (e non più dell’antagonismo, come in un passato che sembra davvero obsoleto).
Naturalmente, è bene annotare, che ciò a cui si deve mirare non è la adesione alle idee e alle soluzioni che la maggioranza o i più forti propongono, bensìla adesione ai valori che tengono assieme la comunità stessa.
Ciò che conta, anche perché il modello sussidiario prenda forma, è infatti la convergenza e l’integrazione dei diversi interessi attorno a una visione, e non l’omologazione degli stessi attorno a soluzioni specifiche o ad un’idea forte, essendo la diversità e la ricchezza di prospettive ciò che dà davvero un senso alla partecipazione “al fare” che un piano strategico richiede.
In altre parole si deve mirare innanzitutto e soprattutto alla creazione di un nuovo civismo, di un senso della collettività oggi oramai estintosi in molte nostre comunità .
Poi verranno le soluzioni concrete, la consultazione, la discussione e la mediazione sui progetti, secondo uno schema capace di rendere la partecipazione effettiva e garantita nel suo opporsi (logicamente) a quella “forza” che, tagliando ogni confronto, mira a una soluzione autoritaria e unilaterale .
Il tutto, nell’intento di offrire una risposta forte alla (possibile, diffusa e drammatica) “diserzione” dal processo di costruzione del futuro attraverso una condivisione di ciò che è e deve essere inteso come l'”interesse generale”.