Un approccio comune per collettività e amministrazione

Nuovi significati per il termine “cura”

La lingua italiana non dispone di una parola come quella inglese “care”, un termine che esprime insieme una attività, quella del prendersi cura, e una emozione, o meglio un insieme di emozioni, come quelle del senso di connessione, della preoccupazione, della percezione di una responsabilità. La nostra parola corrispondente: “cura”, a lungo, è stata riempita di significato solo in relazione alla malattia e ambientata in campo medico sanitario.  In questi ultimi anni, tuttavia, anche da noi si sono moltiplicati gli impieghi del termine “cura” in contesti non strettamente medici, per indicare quell’insieme di disposizione e azione verso individui, collettività o cose.
L’esempio dell’espressione “cura dei beni comuni” è particolarmente significativo di questa accezione larga e ricca del termine, dal momento che in questa formula la parola cura indica i molti e vari modi in cui persone, comunità e istituzioni si preoccupano di proteggere e valorizzare luoghi, spazi, edifici, ma anche beni immateriali a cui si sentono connessi, e agiscono di conseguenza. Lo spessore valoriale di questo approccio, che si riflette a sua volta sul significato del termine cura, si coglie anche nel suo porsi come alternativa alle dinamiche di relazione interamente o prevalentemente basate sullo scambio economico.

Il valore politico della cura

La cura diventa così anche qualcosa che si oppone all’enfasi che il liberismo prima, e il neoliberismo, poi, hanno posto sul valore della proprietà, dell’iniziativa economica e della competizione, un’enfasi che ha avuto l’effetto di erodere lo spazio delle relazioni disinteressate e di consolidare la lettura antropologica dell’homo oeconomicus come unico attore della società.
L’azione di cura rivolta a persone, a beni, all’ambiente nel suo complesso, assume, quindi, una valenza propriamente politica, diventando una chiave per rileggere le relazioni in termini non di scambio, ma di sostegno, nella consapevolezza della interdipendenza reciproca. Le conseguenze riguardano anche le istituzioni pubbliche, alle quali si chiede un impegno attivo, sia nella promozione della cura come attività, sia in direzione di maggiori investimenti sulla cura come oggetto diretto delle politiche pubbliche, anche nella prospettiva di una rinnovata centralità del welfare.

L’etica della cura

Come si coglie da queste poche battute, la parola cura si è arricchita di significati nuovi e sfidanti che interrogano profondamente non solo la politica, ma anche molte scienze umane, come, ad esempio, la filosofia, l’economia, la sociologia, il diritto. Il pericolo che si corre in questi casi è però quello per cui, riempiendo di molti significati un termine, si finisce per fargli dire troppo, diluendone la capacità di dare senso al discorso in cui lo si impiega.
Pur nella consapevolezza di questo pericolo, vorrei però dare conto di un altro importante significato della parola cura, non tanto per aggiungere, quanto piuttosto per provare a mettere a fuoco il nucleo specifico di questo concetto, indagandolo a partire da un passaggio chiave dell’arricchimento concettuale che lo ha riguardato.
Mi riferisco qui all’accezione nella quale lo ha impiegato Carol Gilligan, quando, alla fine degli anni ’70, ma in modo pienamente compiuto nel 1982, con il suo saggio In a different voice, ha rivelato come l’idea moderna di cosa significhi tenere un comportamento moralmente accettabile sia in realtà viziata dal pregiudizio della superiorità del ragionamento logico deduttivo nel conseguimento di una maturità etica. Gilligan, proprio ascoltando la voce delle persone messe di fronte all’esigenza di fare una scelta guidata dalla morale, mostra come risponda ad una istanza etica, non solo l’approccio di chi applica un precetto astratto e corrispondente a giustizia ad un caso concreto, ma anche quello di chi si preoccupa di trovare una risposta solo dopo aver attentamente preso in considerazione la concreta situazione che richiede una scelta, i bisogni specifici delle persone coinvolte, le relazioni di interdipendenza che ne definiscono l’esperienza reale e, a partire da tutto questo, costruisce una soluzione.
Gilligan rivelava così la presenza di un approccio etico diverso: quello che da quel momento in poi abbiamo imparato a conoscere come “etica della cura”.

Legalità e cura

L’aspetto che mi preme qui mettere a tema è come, in questa accezione, la cura possa essere ambientata anche nella pubblica amministrazione, non solo come oggetto dell’azione (una amministrazione che si occupa di erogare servizi nella prospettiva della cura effettiva di persone e beni), ma anche, e soprattutto, come fonte di doverosità nell’esercizio della propria funzione.
Per fare questo devo però spendere qualche parola sul rapporto fra legalità e cura.
All’amministrazione spetta dare esecuzione della legge, che strutturalmente si articola in previsioni normative che hanno il carattere della generalità e dell’astrattezza. L’applicazione al caso concreto del precetto astratto è per l’appunto il meccanismo che rispecchia l’etica della giustizia tradizionale, quello che ci fa dire che tanto più la decisione è giusta, legittima, corretta, quanto più è corrispondente al precetto generale.  Non è raro, tuttavia, che l’amministrazione consideri esaurito il proprio compito nell’eseguire puntualmente quanto ad essa prescritto dalla legge, considerando la dimensione della legalità come un confine che delimita e definisce il suo dovere, oltre il quale, cioè, all’amministrazione nulla più può essere domandato e, oltre il quale, quindi, l’amministrazione nulla più deve.
Ecco, a me pare che l’etica della cura possa indicare cosa altro è dovuto dall’amministrazione, oltre l’applicazione puntuale del precetto normativo.

L’amministrazione e la cura

Per comprenderlo, dobbiamo tornare all’intuizione di Carol Gilligan a proposito della dimensione etica di un approccio che non si accontenta di applicare regole astratte a casi concreti, ma muove proprio dalla specificità delle condizioni reali, delle relazioni sulle quali si innestano, delle situazioni che si determinano, per trovare la soluzione “giusta”. Questo, nel caso dell’amministrazione, non può né deve prescindere dalla legalità, ma serve piuttosto a completare il senso di quest’ultima, indicando che, spesso, occorre fare anche altro per coprire attivamente quello spazio che separa legalità da effettività. Il compito dell’amministrazione, infatti, se correttamente inquadrato nel disegno costituzionale, non si esaurisce nel dare esatto adempimento alle norme, semplicemente applicando il comando generale ed astratto al caso concreto, ma si compie appieno nel realizzare effettivamente il progetto contenuto nella funzione ad essa attribuita.

La funzione costituzionale dell’amministrazione

L’articolo 3 della nostra Costituzione, al suo secondo comma, definisce, infatti, un compito fondamentale per la Repubblica, quello di rimuovere gli ostacoli, si badi bene, non di ordine giuridico, ma di ordine economico e sociale, che “di fatto” impediscono libertà ed uguaglianza. In quelle piccola espressione: “di fatto”, c’è l’incontro con il reale, il confronto con la concretezza materiale dell’essere, e, quindi, l’impegno a costruire una azione capace di realizzare la propria funzione emancipante plasmandosi di conseguenza.
Se anche la legge deve tenere conto delle diverse condizioni di partenza in cui si trovano l’oggetto o i soggetti della regolazione, soltanto in sede di attuazione e di concreta amministrazione ci si confronta con la complessa varietà che caratterizza la loro esistenza concreta e con gli ostacoli “reali” che la piena realizzazione della funzione incontra. Da questo discende la complessa doverosità dell’amministrazione, chiamata a realizzare la sua funzione non solo applicando regole, ma curando che queste producano davvero l’effetto desiderato, in termini di concreto godimento del diritto, di effettiva protezione del bene, di autentica trasformazione del reale.

Non solo “cosa devo”, ma anche “come posso”

Mi piace qui riprendere un significativo passaggio del pensiero di un’altra studiosa che molto si è dedicata al tema della cura, ponendola alla base di una lettura “politica” dell’organizzazione sociale, Joan Tronto (della quale si può leggere Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, 1993). Nel sintetizzare in che modo l’etica della cura interroga la responsabilità dei singoli, ma, aspetto che qui più ci interessa, anche delle istituzioni, Tronto enfatizza il passaggio dall’atteggiamento di chi si domanda “cosa devo”, preoccupandosi essenzialmente di adempiere a quanto prescritto, a quello di chi si chiede, invece, “come posso”, facendosi carico di inverare la giustizia, trasformando la realtà sulla quale interviene.
Una amministrazione che, dopo aver fatto “cosa deve”, non considera esaurito il proprio compito, continuando ad interrogarsi su “come può”, e agisce di conseguenza per realizzare appieno il compito che ad essa affida la Costituzione, è una amministrazione che interpreta un approccio di cura e può condividerlo con le persone e le comunità che in esso si riconoscono.

Un approccio comune

Con questa amministrazione diventa effettivamente possibile un dialogo nella prospettiva della condivisione della funzione.  Con essa è immaginabile costruire insieme nuove soluzioni, che possono assumere forme e modi diversi a seconda delle risorse e dei bisogni della comunità, delle idee che nascono dall’interazione fra quest’ultima e l’amministrazione, del tempo, del carattere del bene, delle persone di cui ci si prende cura in modo condiviso.
Lo spazio e il modo della cura non sono mai dati, non discendono da un precetto astratto da applicare al caso concreto, ma vanno costruiti insieme, concordando, come dispone l’articolo 5 del prototipo di Regolamento messo a disposizione da Labsus, “tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura…”.
L’amministrazione che sceglie di collaborare con i cittadini per curare beni, ma anche comunità e persone, non concepisce la regola come confine che ne limita l’azione, ma come strumento che ne conforma e guida l’attività, una attività che prosegue anche oltre, ma non al di fuori dalla legalità, perché si muove nell’orizzonte di una legalità più ampia, quella costituzionale.

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Immagine di copertina: Towfiqu barbhuiya su Unsplash