S’intitola “Chi possiede la città? Proprietà, poteri, politiche”, il settimo rapporto di Urban@it curato da Camilla Perrone, Mariella Annese, Annick Magnier e Massimo Morisi, e presentato il 28 gennaio 2022, a Bologna, presso l’Aula Giorgio Prodi dell’Università di Bologna

La sezione Ricerche ospita un’intervista fatta a Camilla Perrone, Mariella Annese, Annick Magnier e Massimo Morisi, i curatori del VII Rapporto di Urban@it, intitolato “Chi possiede la città? Proprietà, poteri, politiche”. Diversi i temi trattati ed approfonditi.

«Il titolo del Rapporto», ci dicono i curatori, «si riferisce ad una domanda di ricerca molto articolata che ha sviluppato una intuizione di un mai abbastanza rimpianto urbanista italiano, Giancarlo Paba. A lui e a noi interessava sapere chi influenza maggiormente il funzionamento di una città italiana, chi vi lascia maggiormente la propria “impronta”, e quindi chi maggiormente può condizionare l’innovazione, la trasformazione, la tutela di una qualità accettabile della vita urbana, a cominciare dai diritti e delle responsabilità di chi vive e utilizza la città. È un’esigenza conoscitiva importante sempre, ma a maggior ragione oggi, alla vigilia di investimenti rilevanti come quelli prospettati dal PNNR. Per rispondervi abbiamo attivato in Urban@it un’indagine in sette città italiane di dimensione metropolitana, Torino, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, oltre ad una serie di analisi su tematiche trasversali riguardanti l’insieme della realtà urbana italiana».

Quali sono le principali linee di lettura che emergono dal Rapporto?

«La nostra strategia di analisi adotta tre chiavi di lettura. La prima è data dalle dinamiche del mercato immobiliare che si vanno sviluppando in ciascuna delle città considerate; quindi, dall’osservazione di come vada cambiando il panorama della proprietà fondiaria ed edilizia, e di come questo cambiamento si accompagni alla trasformazione della struttura sociale di molte parti di una città, modificando la sua stessa geografia sociale e l’articolazione delle sue funzioni economiche e culturali. Il mutamento rilevato rende palese come la “finanziarizzazione” del mattone comporti l’ingresso di operatori sovente lontani dal contesto storico locale e in grado di condizionare la stessa struttura urbanistica della città. La seconda lente di lettura è data dai processi di digitalizzazione della città e di molte delle sue funzioni che la pandemia ha notoriamente accelerato. Ne sta emergendo una “città delle reti” che ha un impatto tanto rilevante quanto problematico, sulle competenze che sono richieste per vivere la città e avvalersi dei suoi servizi. Si registrano in proposito non soltanto prevedibili differenze tra gruppi sociali e generazionali, ma anche tra città, legate alla diversa efficienza delle amministrazioni locali. La terza chiave di lettura è data dalle forme di partecipazione civica al governo della città e in particolare alle sue politiche inerenti ai beni e alle funzioni “comuni”. Le diverse città studiate offrono in proposito scenari variegati e a diverso grado di sviluppo e consolidamento».

Si è parlato delle differenze che ci sono fra le città esaminate: alcune che sono in grado con i propri cittadini di innovare una governance concertata, altre no. Ci può dire qualcosa di più su questo tema a noi caro? Su che cosa si basa la differenza?

«Nella ricognizione sui casi abbiamo constatato come quasi mai gli enti locali, in contrasto con talune narrazioni ufficiali, riescano ad imporsi nei grandi progetti urbani con una reale e autonoma capacità progettuale, a partire da obiettivi di intervento compiutamente definiti in sede municipale. Eppure, su questo sfondo di tendenziale subalternità, le differenze tra le capacità comunali di proposta e di iniziativa sono numerose e paiono corrispondere a tre principali discrimini comparativi.
È evidente, in primo luogo, la diversa capacità dimostrata dalle amministrazioni locali di riconoscere le tendenze di contesto, di adattarsi in modo più o meno realistico alle configurazioni sostanziali che vanno assumendo i processi decisionali e i loro attori, di aggiornare congruamente sia le proprie agende sia gli stili e le forme di interazione. Si tratta di uno sforzo che coinvolge tutte le aree di public policy, sul quale i nostri racconti hanno potuto far luce anche se in modo preliminare a possibili sviluppi di ricerca: evidenziando comunque una tendenziale path dependence in sede di programmazione e di progettazione urbana che giunge in qualche caso all’arroccamento su linee di intervento tipiche di altre stagioni. Quando, ad esempio, si è puntato principalmente su grandi eventi – sempre difficili da garantirsi nei loro auspicati effetti di durevole modernizzazione – oppure su grandi opzioni di pianificazione urbanistica dal dimensionamento non sempre realistico ovvero non sempre lungimirante.
Altro discrimine comparativo è dato dalla relativa abilità nella contrattazione dimostrata dall’ente locale nei grandi progetti urbani. Questa dipende, certo e in buona parte, dal grado di “indipendenza” della comunità locale ovvero dal suo essere vera periferia o quasi “centro” nello scacchiere economico nazionale e internazionale, e dalla possibilità che ne deriva di porre in concorrenza gli investitori esterni. Ma anche da strategie finanziarie, organizzative, territoriali di lungo termine. Di qui, lungo questo discrimine, ci si può domandare a) se la città sappia o meno mobilitare capitali “propri” in misura sufficiente per partecipare a progetti in partenariato con una specifica ed effettiva forza di contrattazione; b) se la rete infrastrutturale e di servizi sia tale da non imporre spese difficilmente sostenibili per gli insediamenti nuovi, tanto per l’ente pubblico che per il privato portatore di progetto; c) se le risorse locali pongano l’amministrazione in una situazione che le consenta di richiedere compensazioni utili a scopi redistributivi. Ovvero, ancora, se gli uffici tecnici comunali siano in grado di inserirsi efficacemente nel processo di progettazione.
Infine, il terzo discrimine concerne il “possesso” dei servizi, in senso tecnico e culturale. È come domandarsi se per attrarre nuovi abitanti e nuove imprese, per soddisfare i bisogni dei cittadini, per ridurre le disuguaglianze acuite dalla pandemia, le città abbiano o meno saputo garantire autonomamente sia un buon livello di servizi, attraverso aziende di servizio mono o multiutilities, sia un accompagnamento efficace delle piattaforme, con modalità che assicurino una loro autorevolezza all’interno di queste. Si tratta in breve della capacità di indirizzare l’attività dei servizi in seno alle aziende fornitrici, sia nelle aree classiche di intervento (acqua, energia, rifiuti) che in quelle emergenti (reti e piattaforme digitali). Tale capacità è fatta di proprietà di quote, di assetti normativi, ma anche di abilità amministrativa».

Il PNRR in rapporto con il governo delle città appare un po’ deludente: quali prospettive si possono immaginare nella cosiddetta “messa a terra” del Piano?

«Il PNRR è un programma di investimenti, e questi sono indirizzati in settori cruciali per lo sviluppo e la qualità della vita offerta agli abitanti dei diversi contesti territoriali della penisola, e le città vi hanno un ruolo cruciale: si veda ad esempio l’importanza che vi è attribuita agli interventi per il potenziamento delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità. Tra gli sforzi previsti per il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici, l’accento è posto sulla situazione dell’edilizia residenziale popolare, a testimonianza di un’attenzione nuova a livello nazionale per la qualità dello scarso parco di alloggi pubblici delle nostre città. Si inserisce chiaramente d’altra parte in un disegno di riforma della pubblica amministrazione, inclusa quella degli enti locali come soggetti essenziali della messa in atto del piano. Vi si legge d’altra parte un abbozzo di politica urbana nazionale, che enfatizza l’urgenza di affrontare le disuguaglianze nelle nostre città pur suscitando qualche riserva: ad esempio, nella Missione 5, dedicata a “Coesione e inclusione”, si affronta il tema “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”, focalizzandosi sulla “rigenerazione urbana”.  Questa viene declinata a partire dalle forme sperimentate di progettazione urbana integrata destinata “alla rivitalizzazione e al miglioramento di ampie aree urbane degradate del territorio nazionale”. Due sono i rischi di tale approccio. Ci si concentra sulla dimensione operativa del singolo investimento, quella dello specifico progetto urbano, senza premiare e quindi incoraggiare visioni strategicamente coerenti di grande scala ai fini della promozione della qualità e della riduzione delle disuguaglianze, nelle quali questi interventi dovrebbero venire a collocarsi. Si procede poi nel percorso di etichettamento delle zone cosiddette degradate, iniziato con i diversi piani nazionali per le “periferie”, il cui effetto negativo (aggravamento dell’emarginazione, consolidamento dei comunitarismi conflittuali) è ben documentato nei paesi che da molti decenni hanno imboccato questa strada: si privilegiano interventi rigidamente place-based, che non di rado anzi probabilmente saranno definiti a partire da linee progettuali preesistenti, fondate su schemi di distribuzione territoriale delle possibilità di vita non sempre aggiornate alle loro più recenti e profonde evoluzioni».

La partecipazione civica è una delle cifre per capire dove andranno le città: in che misura e con quali modalità?

«Quando si parla di partecipazione bisogna definire il contesto empirico in cui ci si muove. Ebbene, il lavoro di ricerca che questo VII rapporto Urban@it propone è l’ennesima riprova di un Paese privo di baricentri unificanti eppur ancorato alle sue città. E alla diversità delle storie locali di cui esse sono testimonianza iperattiva. La città, anche e proprio la città italiana dei nostri tempi, specie se di rango metropolitano non sembra farsi possedere, a priori (va sottolineato: a priori) da nessuno. Eppure, da un lato, è costantemente oggetto di pulsioni egemoniche locali e translocali. Dall’altro, racchiude energie difensive e propositive che vorrebbero offrirle il senso di un luogo meritevole di essere abitato. Da un altro lato ancora vive dell’intreccio di sollecitazioni innovative, tecnologicamente sostenute e di derive che discriminano e marginalizzano. Insomma, sono città che “fanno del loro meglio”, quando lo fanno, ma che hanno di fronte sfide e problemi che richiedono inusitate capacità di governance: ove il discrimine tra amministratori e amministrati, in termini di responsabilità verso l’essere e il fare città, tende a sfumare, fino a rendersi difficilmente rintracciabile. Questo il punto essenziale: il contesto problematico in cui ci si muove. Di qui la fatica di individuare solide e pacifiche ricette salvifiche. Ma di qui anche il bisogno di governi locali che sappiano e assumano fino in fondo una nozione aggiornata ed efficace di governance, ossia di “governo in azione”: a maggior ragione a fronte di assetti urbanistici, edilizi e immobiliari in tumultuoso divenire; a fronte di cittadinanze attive che si tirano “su” ogni possibile manica pur di non perdere il valore del vivere in una comunità urbana; a fronte di economie, innovazioni, rendite e aggregazioni civiche e cognitive che fanno leva su reti antiche e nuove, e su tecnologie che consentono ogni possibile forma di imprenditoria individuale e collettiva, dalla più “egoistica” alla più “pubblicamente” responsabile, passando per l’ovvia, banale e necessaria modernizzazione della produzione ed erogazione dei servizi alle persone e alle funzioni urbane. Ma di quale governance stiamo parlando? Bisogna chiederselo, almeno per evitare la chiacchiera allusiva che il termine reca con sé nel dibattito pubblico italiano. Ebbene, se per governance intendiamo un meccanismo di governo ove le istituzioni sappiano promuovere reti attive di relazioni tra attori pubblici e privati senza smarrire il primato della legittimazione democratica che alle istituzioni compete; ove l’autorità formale del pubblico amministrare sa promuovere e consolidare coalizioni di interessi attorno al perseguimento di una qualche declinazione programmatica o contingente di bene pubblico; ove le opzioni fondate sul principio maggioritario e dunque sulla volontà delle assemblee elettive sappiano preventivamente correlarsi a meccanismi di negoziazione e deliberazione capaci di porre in valore l’intelligenza collettiva di “minoranze profetiche” di cittadini attivi ancorché politicamente irritanti; ove il “decreto” sappia fondarsi, ai fini della propria efficacia, sulla solidità del patto e financo del contratto con cittadini e con interessi organizzati nella trasparenza delle mediazioni e degli argomenti che le sostengono, allora, “possedere la città” può diventare una chance non per racchiuderne e controllarne le potenzialità conflittuali ma per porne in valore la gamma di talenti che sempre e comunque la città racchiude. E che sempre e comunque attende un qualche innesco per esplodere. Parlare di partecipazione alla formazione e alla messa in opera di politiche urbane e metropolitane, così come di partecipazione alla gestione e alla messa in valore collettivo di beni comuni, significa sperimentare le forme che un simile innesco può assumere. Ciò che abbiamo osservato in proposito è appunto un diffuso sperimentalismo urbano, con cospicue differenziazioni empiriche tra città e città: uno sperimentalismo sempre alla ricerca di una qualche legittimazione istituzionale o di un qualche consolidamento procedurale ad opera di amministratori aperti alla condivisione civica delle scelte pubbliche e ad un tempo attenti a contenerne l’impatto potenzialmente conflittuale».

Ha detto il ministro Giovannini: «Bisogna capire non solo chi possiede le città, ma “per farne cosa”? Si riuscirà a fare capire a tanti sindaci che la sfida dell’Agenda 2030 riguarda anche le politiche territoriali?»

«Non c’è sindaco che non definisca come cruciale la sfida della sostenibilità. È ovvio, però, che politiche territoriali adeguate richiedono di rinunciare ad approcci competitivi che alimentano il consumo di suolo in nome di una maggiore attrattività verso nuovi residenti e nuove imprese. Al posto della competizione va preso sul serio il coordinamento operoso fra gli enti locali che condividono ambiti e problematiche territoriali comuni, e va abbandonata l’illusione che l’urbanistica come disciplina professionale sia sufficiente allo scopo. Occorre una nuova nozione di governo del territorio in cui il “piano” sappia essere una forma di realistico disegno sociale capace di coinvolgere – nel suo farsi e nel suo porsi in opera – in primo luoghi i destinatari delle scelte collettive, delle regole e degli standard qualitativi e quantitativi che contempla: dai cui atteggiamenti individuali di breve e di lungo andare dipende l’effettiva sostenibilità di quelle stesse opzioni».

È importante che le città si mettano insieme in rete: a che punto siamo?

«Siamo indietro, a cominciare dal fatto che, nonostante i proclami le città metropolitane, salva qualche rara eccezione, sono un sostanziale fallimento, nel senso che non hanno saputo superare particolarismi né campanilismi. Il che è emblematico del fatto che non basta scrivere in Costituzione l’affermazione di una nuova istituzione per garantirne una qualche efficacia. Questo banale insegnamento dovrebbe essere di monito, se è consentita una divagazione conclusiva, per coloro che hanno integrato l’art. 9 della Costituzione pensando che l’ambiente si tuteli con una norma della nostra legge suprema. In questa prospettiva Urban@it può avere un ruolo peculiare: monitorare in maniera sistematica e continuativa, al servizio della comunità scientifica, dei cittadini e degli amministratori, l’efficacia delle numerose innovazioni messe in atto nella presente stagione politico-istituzionale, in uno scambio continuo di informazioni e valutazioni tra comunità locali, tecnici e decisori. A questo fine, ad esempio, Urban@it sta mettendo in opera un Osservatorio sul funzionamento del PNNR e sul suo impatto urbano e territoriale».

Foto di copertina: dettaglio della copertina del VII Rapporto di Urban@it

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