L’esperienza di LegamiLeali tra fare e immaginazione

Prendiamo liberamente spunto per questo editoriale da alcuni riferimenti tratti da “Progettare per sopravvivere” di Richard Neutra, in particolare da una delle frasi più citate: «L’esplorazione del sottosuolo della natura umana ci dice che in ciascuno di noi convivono due tendenze apparentemente in conflitto: essere previdenti o lasciare che le cose accadano, pianificare o non pianificare». In questo conflitto, oggi, quando ci si occupa di programmazione e progettazione dei servizi si sta, continuamente.
Negli ultimi anni sono aumentati considerevolmente schemi e modalità di finanziamento delle politiche sociali territoriali sempre più strutturati, articolati su modelli di project management dettati dall’auspicato aumento di efficacia ed efficienza dei servizi, mentre poi, si sa, la realtà accade. E in questo accadere, spesso fugge.
L’inganno, per i pianificatori seriali, come spesso si rischia di diventare, navigando tra piani di progetto, budget e rendiconti, è credere che quel che fugge non ci competa, perdendo la capacità di farci stupire e di creare immaginario collettivo. Un problema dell’ente pubblico, ma spesso anche del privato sociale.
Eppure, in un quadro sempre più complesso da decifrare, a livello di vite personali, collettive e organizzative, quel che accade può darci visioni nuove e decisive per ripensare, o semplicemente ricomporre, le nostre pianificazioni.
L’esperienza che portiamo, a titolo d’esempio, è il progetto LegamiLeali, con capofila l’Azienda Speciale Garda Sociale (ente strumentale dei 22 Comuni del Garda Bresciano, capofila del Piano di Zona) in partenariato con cinque cooperative sociali e un’ampia rete di associazioni, gruppi, enti pubblici e privati, cofinanziato da Fondazione Cariplo col programma Welfare in Azione. Progetto che ci ha insegnato, nel fare, quanto quello che può accadere, non sarà mai sufficientemente pianificato, né pianificabile. Quanto, però, quello che impariamo nel fare ci rende più abili ad immaginare quel che verrà.

Come nasce un progetto di comunità? Mixando utilità e bellezza

L’utilità. LegamiLeali è nato, nel 2018, dalla consapevolezza di voler cercare risposte di contrasto all’aumento di fenomeni di devianza e di illegalità, che coinvolgevano minori o giovani adulti. Da un lato, da diversi anni si registrava l’aumento delle fragilità e delle vulnerabilità di famiglie con figli in fascia d’età 16-22 anni; dall’altro, emergevano i limiti e i vincoli delle agenzie educative e dei servizi sociali, sempre più in condizione di perenne affanno, distratti e ingarbugliati, spesso, da responsabilità amministrative e scadenze.
La bellezza. Il pensiero progettuale ha, poi, trovato “casa”, mettendo in rete, sul territorio, sei beni confiscati, anch’essi esito di comportamenti illegali, concessi in comodato all’Azienda Speciale, quali spazi di cui re-immaginare la bellezza, sia per ospitare attività educative, sia per nuovi servizi, tra cui un circuito di turismo sociale.
Il punto d’incontro. LegamiLeali è cresciuto da idea a progetto, grazie alla messa in comune, onesta, sincera, faticosa, delle esperienze dei servizi sociali comunali, dell’Azienda Speciale Consortile Garda Sociale e degli enti del Terzo settore del territorio. Dal confronto è sempre emerso come la distanza esistente tra visione tecnica dei servizi e i percepiti e vissuti dei beneficiari potesse essere colmata solo se ricomposta. Se oltre a risposte utili, si riusciva a percepire e far percepire la bellezza della condivisione.
«Una comunità sicura è una comunità che si prende cura» è diventato il claim di progetto, con cui LegamiLeali ha scommesso sullo strumento dei Patti di collaborazione per fare comunità, affidandosi all’intuizione e all’immaginazione nata dal sentire le testimonianze di altri territori che già si erano sperimentati.
Utili e belli, i Patti di collaborazione, avevano le caratteristiche per essere progetti nel progetto, e, nello stesso tempo essere luoghi, volontà, condivisioni da lasciare accadere.

L’azione di comunità, investire in partecipazione

Lavorare sui temi della devianza e dell’illegalità in maniera comunitaria ha richiesto anzitutto un lavoro di contronarrazione, capace di dare nuovo valore alle letture di sé, alle dimensioni più relazionali di intervento sociale e alle risorse territoriali. Capace di leggere tutti questi aspetti come beni comuni di cui aver cura. Beni comuni capaci di catalizzare energie e volontà e di tradursi in proposte condivise tra amministrazioni locali, cittadini ed enti del Terzo settore.
In quattro anni di attività, 15 delle 22 amministrazioni hanno un Regolamento approvato. I Patti di collaborazione, ideati e attivati, superano la cinquantina. Molti sono ancora in essere sul territorio.
Quel che è accaduto è nato da 340 cittadini sottoscrittori, insieme a 4 Fondazioni, 33 Associazioni, 2 Scuole, 1 Consiglio Comunale dei ragazzi e 8 imprese. La popolazione complessivamente coinvolta supera le 500 persone. Tra questi, anche dei piccoli cittadini, come Zoe, ri-battezzata la “Greta Thumberg di Bedizzole” per il suo Patto di collaborazione sulla cura della strada di casa. Se l’avessimo dovuto pianificare dall’inizio, non ci avremmo mai creduto.
Partendo da una positiva collaborazione tra i cittadini e la pubblica amministrazione si sono elaborate soluzioni a problemi di interesse generale in modo più efficace rispetto al modello di amministrazione precedentemente adottato, nel quale la separazione delle responsabilità, oltre a non essere garanzia di maggior tutela, rischiava di soffocare le possibilità di soluzioni generative. Con i Patti di collaborazione si è sperimentato il prendersi cura dei beni comuni materiali – piazze, poli sportivi, strade, distribuzione alimentare, e di beni immateriali – azioni di prossimità verso anziani o fragili; tavoli educanti tra le diverse istituzioni territoriali. Per tutto il territorio è stato importante vedere come, nella situazione emergenziale ed imprevedibile dei lockdown pandemici, i Patti di collaborazione siano stati strumenti utili a garantire un supporto diretto ai cittadini, ma anche a restituire per qualche istante la bellezza della relazione e della prossimità.
I Patti e i princìpi dell’Amministrazione condivisa hanno valorizzato inattese tipologie di attivazione civica, intercettando energie nuove. I Patti di collaborazione hanno permesso a noi, ai cittadini e al territorio di fare esperienza diretta, di verificare come amministrare in maniera condivisa sia un esercizio da allenare, imparando ogni volta qualcosa in più. E in questo costante esercizio, come vada ricercato l’equilibrio tra la capacità progettuale e programmatoria degli enti istituzionali e l’attenzione per quello che le persone vivono, sentono e agiscono. Si deve riuscire a pianificare, lasciando che le cose (belle) accadano.
L’adozione ampia dello strumento dei Patti di collaborazione è stata senza dubbio esito di una relazione di fiducia tra Azienda Speciale, amministrazioni locali e Terzo settore, ma la sua resa operativa, la sua traduzione in azione, sarebbe stata sicuramente meno sostanziale senza aver condiviso, individuato ed investito su un accompagnamento costante del progetto.
Solo con quest’attenzione, che nella pratica è un costante lavoro di dialogo, facilitazione e raccordo tra enti locali, cittadini e associazione, è stato possibile vivere i Patti di collaborazione come azioni concrete che rafforzano le relazioni tra le persone, tra le persone e i luoghi, avvicinando i cittadini alle istituzioni, e viceversa. Quest’attenzione è l’esito del lavoro ordinario, quotidiano, di operatori che ci mettono competenza professionale, ma anche entusiasmo e volontà individuale. Senza queste caratteristiche, immaginare cosa può essere e riuscire a creare relazioni è poco probabile.

Alcuni firmatari dei Patti di collaborazione (Fonte: Elena Rocca)

Programmazione sociale e libera partecipazione: dove ci si incontra?

L’esperienza di partecipazione di LegamiLeali sollecita, soprattutto dall’osservatorio di un ente di secondo livello qual è un’Azienda Speciale Consortile, alcune domande di metodo e di prospettiva su cui, in parte, ci sentiamo di aver risposta, in parte, siamo ancora in ricerca.
Dal lato dei metodi di intervento sociale, negli ultimi anni si sono moltiplicati i progetti orientati al welfare di comunità, che hanno contribuito a portare, a gran voce, nel dibattito tra Terzo settore e pubblica amministrazione, il tema della coprogrammazione e coprogettazione dei servizi, individuandola, troppo spesso, come un meccanismo risolutivo della complessità da affrontare.
Dall’altro, negli enti incaricati di occuparsi di programmazione sociale, tra cui gli ambiti territoriali, istituti di riferimento dalla Legge 328/2000, è cresciuta sempre più la necessità di sviluppo e rafforzamento delle capacità progettuali e programmatorie. Oggi, accanto alle misure di erogazione e sostegno diretto, aumentano considerevolmente gli interventi che richiedono approcci alla programmazione sociale più progettuale, per obiettivi e risultati.
Tuttavia, se ci guardiamo da vicino, assistiamo ad un pubblico in affanno, con competenze diffuse, ma ancora da rafforzare, con poco tempo e risorse per definire scenari, travolti dall’ordinaria necessità di far quadrare le proposte, gestire la rete dei servizi, modulare budget per rivedere le spese. E in questo affanno, molto spesso, si ritrova anche il Terzo settore più strutturato. Il rischio è una pianificazione “narrativa”, fatta di teoria ben articolata, ma difficile da mettere a terra, da integrare con quanto già c’è e incapace di condividere una visione di come potrà essere.
Eppure, si progetta per andare oltre, per produrre cambiamento. E in qualche modo per accettare che nel cambiamento bisogna saperci stare.
Tra amministratori locali catapultati in sfide di ordinaria complessità, a tecnici in perenne rincorsa di quello che manca, la comunità e la sperimentazione dei Patti di collaborazione è occasione per mantenere una connessione costante col territorio, di sentirne i bisogni e di sperimentare soluzioni, di farsi sorprendere dalla bellezza di quello che può accadere. Per questo, oggi, l’Amministrazione condivisa non ci appare un’innovazione di metodo fine a sé stessa, ma l’opportunità di un ancoraggio necessario a mantenere e rinforzare i legami comunitari in un sistema di sussidiarietà, che dà concretezza all’articolo 118 della Costituzione.
La capacità del sistema deve però, da un lato, investire sulla propria capacità programmatoria e progettuale per non far spegnere queste energie. Non basta la buona volontà, ma serve competenza nella cura delle relazioni e nell’accompagnamento costante, alle persone, ai gruppi, alle associazioni, agli enti locali. Dall’altro, serve una costante autocritica costruttiva, tra tutte le parti coinvolte, per riconoscere i propri limiti e vincoli, ma soprattutto per trovare insieme leve per spingersi oltre. Verso il territorio che immaginiamo, facendo insieme.

Elena Rocca è referente programmazione e progettazione Azienda speciale consortile Garda Sociale. Dal 2009 si occupa di progettazione sociale, consulenza e formazione in contesti differenti.

Per la foto di copertina e tutte le foto presenti nell’articolo si ringrazia l’Autrice