Un nuovo paradigma per l'integrazione tra servizi pubblici e alleanze con le comunità

I patti di collaborazione e i servizi pubblici collaborativi

L’esperienza dei patti di collaborazione sta segnando una trasformazione sociale anche dei servizi pubblici: alcuni servizi si caratterizzano per un grado crescente di collaborazione che viene attivato con le comunità locali in alcuni contesti come scuole, biblioteche, centri culturali, che diventano sempre più anche luoghi di socializzazione e di comunità.  Anche negli spazi verdi urbani o negli immobili riutilizzati attraverso i patti, i cittadini operano sempre più creando luoghi di aggregazione e di rigenerazione delle comunità, sviluppando tessuti sociali talora in degrado e stimolando risorse comunitarie (Ezio Manzini e Michele D’Alema,  Fare assieme Una nuova generazione di servizi pubblici collaborativi, Ed.  Egea, Milano 2024). I patti, lo abbiamo verificato, creano comunità: comunità aperte in cui ci si prende cura dei beni comuni. E attraverso questi, ci si prende cura delle comunità stesse. Ciò favorisce anche una nuova gestione e sviluppo di servizi pubblici e attività che sono sempre più co-prodotti tra istituzioni e cittadini attivi (singoli o associati).

Le Case di Comunità: luoghi di sperimentazione del protagonismo della società civile

E’ questo anche il caso delle Case di Comunità. Le case di comunità (d’ora in poi CdC), secondo il DM 77/2022, saranno luoghi privilegiati per la progettazione di interventi di carattere sanitario, sociale e di integrazione sociosanitaria, ma anche luoghi di “co-produzione” di servizi con le comunità locali. Il PNRR prevede la costituzione di 1288 Case di comunità su tutto il territorio nazionale entro il 2026. Saranno luoghi di assistenza primaria aperti tutto il giorno e col compito di migliorare l’accesso a tutti i servizi dell’ASL. E la loro gestione sarà affidata in gran parte a tre tipi di soggetti: ASL, Comuni e società civile (cittadini singoli e organizzati).

Una nuova idea di Salute come bene comune

Sappiamo che il mondo del terzo settore produce da molti anni servizi “strutturati” (per es di assistenza domiciliare, trasporti sanitari, offerta di ausili e materiali, ecc) che possono oggi essere utilmente co-progettati e co-programmati con le istituzioni (ex art 55 CTS) favorendo le reti territoriali e le connessioni tra diverse componenti del terzo settore e l’interazione con i servizi delle istituzioni. Alcune associazioni hanno posto anche una crescente attenzione alle “povertà sanitarie” e disuguaglianze attivando propri servizi ed attività per contrastarla.
Adesso però l’obiettivo non è solo di co-progettare e co-programmare servizi, ma con le CdC s’intende anche co-produrre attività, come ribadisce il DM 77/22. Come può il terzo settore, la comunità, diventare nuova componente protagonista dei servizi sociali e sanitari territoriali, in tal senso? Dare una risposta a questa domanda è un obiettivo che si sono posti anche alcune reti nazionali come “Prima la comunità” e la stessa Alleanza per le case di comunità costituitasi pochi mesi fa. Entrambe partono da una nuova idea di Salute come bene comune.

 

Immagine condivisa da Rossana Caselli.

Patti di collaborazione per sperimentare il protagonismo delle comunità e creare benessere: alcuni esempi

Se la Salute è un bene comune, si possono adottare i patti di collaborazione per sperimentare attività co-prodotte che segnano percorsi sperimentali verso le CdC, proprio come ha indicato anche l’esperienza del Valdarno.
Alcuni esempi concreti sono le cure di prossimità: forme di auto-mutuo aiuto per anziani e persone sole, per famiglie con persone problematiche o fragili, per minori, creando anche tipi di “affidi” temporanei di prossimità. Quindi si tratta di cittadini attivi, talora “esperti” sulla base talora della propria esperienza personale, o comunque è un auto e mutuo aiuto, un soccorso reciproco, nella prossimità del vivere, che si attua in collaborazione tra personale dell’ASL e dei Comuni,  associazioni e cittadini.
Altri esempi concreti sono i patti per svolgere attività congiunte di prevenzione, quali la diffusione di stili di vita sani con iniziative per una buona alimentazione (per es. con corsi di cucina con attenzione ai diabetici, malati oncologici, ecc), di educazione al movimento e all’attività fisica per specifiche patologie (quali pressione alta, obesità, ecc); palestre di memorie intergenerazionali (per allenare la memoria in ogni fase della vita). Si tratta di attività svolte dal personale dell’ASL, da associazioni e cittadini, congiuntamente, che sviluppano anche socializzazione e comunità, creando benessere e solidarietà.
Altri esempi ancora, sono i “punti di comunità” organizzati da cittadini per i cittadini: realizzati per rispondere alla necessità di offrire informazioni e accompagnamento ai servizi per percorsi di cure di alcune patologie o specifici bisogni soprattutto delle persone più “fragili” socialmente, favorendo connessioni tra associazioni del terzo settore e servizi socio-sanitari, sviluppando forme di volontariato e di “comunità di cure” sui territori. Non sono i PUA (Punti unici di accesso attivati dall’ASL), ma “sportelli leggeri” di informazione ed accompagnamento dei cittadini che vivono sui territori, talora lontani dai servizi sanitari territoriali quali sono le “zone interne”. I punti di prossimità o comunità sono innanzitutto luoghi di ascolto e di accoglienza, di socializzazione, che fungono da interfaccia con il sistema socio-sanitario territoriale, il terzo settore e la rete di cure di prossimità.
Questi sono solo alcuni esempi, ma potrebbero esservene molti altri, di cosa significhi anche co-produrre con le comunità locali ed il terzo settore. Ma abbiamo anche visto che è assai difficile, nonostante le richieste dei cittadini e la disponibilità di alcune istituzioni e/o parte dei loro professionisti, mettere in pratica questi tipi di patti. Perché si scontrano con una organizzazione e percorsi decisionali diversi. Perché questo metodo dei patti di collaborazione per co-produrre richiede prioritariamente un nuovo paradigma organizzativo. 

E’ innanzitutto necessario cambiare il paradigma organizzativo: il nodo da sciogliere che spetta in primis alle Regioni e ASL

Occorre soprattutto a livello regionale il coraggio di uscire dalle secche attuali che da una parte consentono di mettere in pratica approcci di co-progettazione e co-programmazione (art 55 e LRT 65) per i servizi più strutturati, e con gli enti del terzo settore, ma dall’altra non riescono a sostenere concretamente l’utilizzo di strumenti per promuovere la missione di community building che hanno le amministrazioni pubbliche. Eppure, ormai da diversi anni, molte ricerche confermano l’importanza per le amministrazioni pubbliche di favorire la costruzione di comunità perché, al crescere del capitale sociale, la società risulta più resiliente e anche con tassi di sviluppo socio-economico maggiore. Ed i patti di collaborazione siglati direttamente con cittadini (singoli o organizzati) per co-produrre sono potenti strumenti di community building. Si tratta di due diversi “livelli” di amministrazione condivisa che debbono però necessariamente integrarsi e sostenersi l’un l’altro con una visione “bottom-up”. E non viceversa.
Dal 2020 ad oggi invece, nonostante importanti ricerche valorizzino il coinvolgimento della comunità per la promozione della salute, si sta purtroppo di fatto diffondendo (anche in Toscana) una duplice forma di amministrazione condivisa che viaggia su “binari paralleli”. Come afferma Daniela Ciaffi (“Amministrare in modo condiviso: la prospettiva degli abitanti a partire dagli invisibili”, in Ezio Manzini e Michele D’Alema,  Fare assieme,  Egea, Milano  2024), l’amministrazione condivisa (AC) dei servizi pubblici attraverso la co-programmazione e co-progettazione con gli ETS, da una parte, e l’AC per la cura dei Beni Comuni con patti firmati anche da cittadini singoli e gruppi informali, dall’altra parte. L’intersezione tra i due tipi di AC, la mancata visione sistemica dei due aspetti, è la trappola che rischia di bloccare lo sviluppo dell’AC nel suo insieme e in specifico delle CdC. E’ questo il nodo da sciogliere prioritariamente: il cambio di paradigma, che non è più solo passare da un modello di amministrazione bipolare ad uno collaborativo, ma anche l’integrazione di diversi strumenti della collaborazione in un visione complessiva di amministrazione condivisa che opera su più livelli. Vi è un livello di prossimità e di relazioni territoriali su scala comunale, in cui i patti di collaborazione forniscono uno strumento concreto di sperimentazione di co-produzioni tra istituzioni e cittadini attivi singoli o organizzati. Vi è anche un livello di scala più ampia in cui le indicazioni dei territori possono essere la base per la co-programmazione e co-progettazione. Ma non viceversa, se vogliamo che le comunità ne siano protagoniste e se vogliamo costruire comunità per promuovere la salute.

Immagine condivisa da Rossana Caselli.

Verso un modello di cura che sia anche delle relazioni

Spetta quindi innanzitutto alla Regione, all’ANCI, al mondo del TS, adottare una visione “sistemica” dell’AC delle CdC, su più “livelli”. Occorre un nuovo paradigma innanzitutto a livello anche regionale o sovracomunale: politiche che facciano della comunità una risorsa sviluppando un suo protagonismo inedito in cui il pubblico crea le condizioni favorevoli e di stimolo per un modello di cura e di comunità di cura. Non si tratta quindi per le CdC di operare solo per una integrazione tra servizi sociali e sanitari, ma di operare per la salute sviluppando una forte alleanza con le comunità nella loro interezza. E i patti di collaborazione sono lo strumento più idoneo per sperimentarlo.
Questo tipo di servizi pubblici e di collaborazione e protagonismo attivo dei cittadini non solo offrirebbe una nuova risorsa alla salute sui territori, ma darebbe vita ad un recupero di sovranità dal basso capace di rigenerare energie democratiche, di migliorare i rapporti tra istituzioni e cittadini e anche di creare nuove alleanze tra enti del terzo settore e cittadini attivi. E naturalmente questo non vale solo per le CdC, ma per tutti gli ambiti di possibili collaborazioni tra istituzioni e cittadini.

Immagine di copertina: ua_Bob_Dmyt_ua su Pixabay

LEGGI ANCHE: