L’attuale congiuntura potrebbe essere utile per un cambio di passo della Capitale per rimettere al centro indispensabili prassi del “comune”

Parliamo di Roma nella speranza che vi possano essere nuovi segnali, soprattutto dall’alto, per il rilancio della prospettiva del “comune”: la strada da percorrere è tanta anche perché questi anni sono stati caratterizzati dalla perdita di molte occasioni utili e da poco apprendimento istituzionale.

Distanze…

Mentre a Berlino il recente referendum ha sottolineato la volontà di espropriare le grandi proprietà immobiliari per evitare il crescente aumento degli affitti e, quindi, le forme più spregiudicate di speculazione immobiliare, in un contesto senz’altro diverso, Roma continua a convivere con la sua più tradizionale assuefazione alla concentrazione delle rendite e all’incremento delle disuguaglianze. La ripresa della mobilità internazionale e, quindi, dei flussi turistici, stanno infatti riproponendo le consuete problematiche legate all’assenza di controllo, ad esempio, del caro affitti e, più in generale, delle forme di massimizzazione dei vantaggi del modello proprietario e privatistico dominante, nella diffusa indifferenza alle indispensabili prospettive del “comune”. Come è noto, il modello proprietario – esplicitamente contestato dagli attivisti della campagna berlinese – ha senz’altro favorito la finanziarizzazione delle economie con conseguente concentrazione di capitali e aumento delle disuguaglianze, riproponendo modalità spesso impermeabili rispetto a qualsivoglia direzione di innovazione sociale, nonostante le promesse di cambiamento che ci eravamo scambiati nei primi mesi dell’emergenza Covid.

… e ritardi

In questo quadro, pesano ancor più le lentezze e i ritardi di Roma che, a differenza di molti altri comuni d’Italia, non ha ancora provveduto all’approvazione di un Regolamento per i Beni Comuni, nonostante proprio il Lazio, nel 2019, abbia approvato la prima legge regionale sul tema (Lr.10/2019). Inoltre, pur avendo riconosciuto da tempo un uso del patrimonio almeno pubblico coerente con le domande territoriali della cittadinanza (Delib. 26/1995), permangono quelle forme di ostilità che, a partire dal 2014, nonostante l’emergenza abitativa e nell’evidente incapacità di fornire risposte, si è manifestata verso le occupazioni da parte del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica nei confronti degli 82 stabili occupati, la maggior parte dei quali utilizzati per finalità abitative. A questo si è aggiunto che, nella gestione di molte di queste iniziative, è di fatto prevalsa la valorizzazione delle proposte provenienti dagli stessi proprietari degli immobili occupati, al fine di ampliare, in teoria, la ridotta offerta di alloggi pubblici, ma finendo per riprodurre invece che osteggiare un sistema opaco di rapporti di convenienze con soggetti privati che spesso possiedono proprietà lasciate nell’incuria per anni in attesa di occasioni ad alto rendimento, possibilmente foraggiate da risorse pubbliche e, quindi, con minori rischi. 

Assunzione di responsabilità e valorizzazione degli apprendimenti

Oggi, più che mai, andrebbero seriamente riconsiderate in una ampia prospettiva del “comune” le occupazioni di spazi urbani in disuso o dismessi da anni (ex edifici industriali, scuole e uffici, officine e capannoni), trasformati e gestiti per fini abitativi, al cui interno si stima attualmente già la presenza di oltre 11.000 persone delle più varie nazionalità, o luoghi pubblici dove si organizzano attività di carattere sociale, culturale e politico. Allo stesso tempo, pare inutile dirlo qui, ma è chiaro che esistono tantissime esperienze di natura civica che in questi anni hanno spesso tamponato, in solitudine, le mancanze istituzionali nel vuoto prevalente di indirizzi e scelte pubbliche: tali soggetti e istanze andrebbero meglio rappresentate e messe in rete al fine di riuscire a innescare e riprodurre meccanismi sempre più virtuosi con riferimento «a forme inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2, Costituzione).
Come è evidente, infatti, importanti segnali di cambiamento di prospettiva e di assunzione del “comune” come strategia di azione a Roma si sono sinora manifestati per lo più in assenza di una regia complessiva – e, quindi, con orientamenti difficilmente proficui, specie sul medio e lungo periodo – ma, anche, senza molti apprendimenti da parte delle istituzioni. E questo è avvenuto pure dinnanzi a esperienze significative come la ricca e lunga sequela di sperimentazioni (dall’Angelo Mai al Teatro Valle) in grado di proporre interessanti pratiche innovative in risposta a bisogni abitativi, occupazionali e culturali della città. È purtroppo storia nota che molte di queste pratiche non sono divenute generative di modelli alternativi di azione pubblica alla scala urbana capaci di ripensare luoghi e bisogni, così come, in molti casi, esse sono state azzerate da disinteresse e/o pervicace incapacità del ceto politico di esprimere indirizzi e impegno in questa come in altre direzioni.
Appare quindi necessario, per tutti noi, ciascuno con la propria esperienza e competenza, provare a stabilire sempre più connessioni di reciproco riconoscimento utili alla valorizzazione di energie pure presenti e interessate a collaborare, impegnandosi in prima persona.

Cambi di prospettiva

Per Roma, con un rapporto invertito tra proprietà e affitti rispetto a Berlino (dove è in affitto l’80% della popolazione) può oggi essere interessante osservare come, di fatto, le traiettorie di trasformazione e sviluppo si sono mosse in sostanziale contrapposizione rispetto a quelle del “comune” sostenute dai promotori del referendum berlinese: ciò ha conformato la dimensione fisica e le dinamiche sociali caratteristiche dello spazio urbano entro condizioni difficili da ignorare o modificare senza un intenzionale cambio di passo nell’agire pubblico. Gli effetti di lungo periodo della combinazione di scelte soggettive e pubbliche del prevalere della proprietà come bene assoluto hanno prodotto, nel nostro contesto, gran parte dello sprawl, delle villette con giardino, abusive e non, che poi generano tensioni tra quello che di fatto si possiede e quello che può servire ai più giovani entro l’insostenibilità della gestione pubblica.
Nel contesto romano appare quindi particolarmente urgente un rinnovato richiamo dell’attenzione verso le possibili forme di condivisione e gestione dei beni pubblici nella cornice del diritto alla città che trova un suo importante punto sensibile, ovviamente, nell’abitare, pur non esaurendosi in questo. Ma anche, ogni invito alla riflessione utile a ricollegare le scelte individuali alle morfologie dello spazio urbano di cui ci lamentiamo e che, di volta in volta, finiscono per manifestarsi nei fallimenti e nell’insostenibile peso dell’ingovernabilità.

L’importanza della collaborazione per affrontare le sfide contemporanee

Entro questa prospettiva appare quanto mai necessario imparare a condividere e rendere fruibile tutta l’innovazione sociale sviluppatasi all’interno delle diverse esperienze nelle quali si integrano molteplici soggetti, oggetti e luoghi. Ma anche massimizzare l’importante offerta pubblica che soggetti differenti producono nei luoghi e forniscono ai territori centrali e periferici nei quali operano. Un cambio di passo che parte quindi dal combinare insieme i tanti diversi soggetti e le competenze che popolano Roma, rafforzando l’immagine, l’identità e la replicabilità di percorsi nei quali la collaborazione e la contaminazione è stata fondamentale per affrontare importanti sfide contemporanee.

Daniela De Leo è Prorettrice al Public Engagment presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È professoressa associata di Urbanistica presso il Dipartimento di Pianificazione, Design e Tecnologia dell’Architettura presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Ha svolto ricerca su periferie, crimine organizzato e disuguaglianze nel Mezzogiorno e, più recentemente, su Roma.

Foto di copertina: Luis Cortes su Unsplash